Parlare di rischio di guerra è sbagliato, perché la guerra è già in corso. Il rischio vero, oggi, è quello di una guerra totale tra Israele ed Hezbollah, l’organizzazione politico militare sciita libanese.

L’escalation minaccia di degenerare in qualsiasi momento, aggiungendo un’altra guerra al conflitto già in atto, con un secondo fronte dopo quello aperto da Israele otto mesi fa nella Striscia di Gaza in risposta all’attacco del 7 ottobre. Uno sviluppo di questo tipo avrebbe conseguenze disastrose per il Libano, già indebolito da una pesante crisi interna.

Negli ultimi giorni un attacco israeliano ha colpito un’automobile che viaggiava nel sud del Libano, uccidendo un generale di Hezbollah, il più alto in grado tra le vittime provocate finora. La risposta del movimento sciita ha assunto la forma di una raffica di missili e artiglieria sul nord di Israele. Ogni mese cresce il livello degli obiettivi e degli armamenti utilizzati.

Per cercare di scongiurare una guerra che fino a qualche settimana fa nessuno sembrava volere, il 17 giugno l’emissario americano Amos Hochstein è arrivato in Israele, prima di spostarsi in Libano. Ma la diplomazia sembra insufficiente per risolvere la situazione.

In atto c’è una doppia logica di guerra. L’emissario americano e il francese Jean-Yves Le Drian, che si trovava a Beirut il mese scorso, cercano di proporre un piano di de-escalation. Le Drian ha persino incontrato un leader politico di Hezbollah, cosa che Hochstein non può fare. Ma il contesto non lascia ben sperare.

Sul fronte di Hezbollah c’è la dipendenza stabilita dal leader dell’organizzazione Hassan Nasrallah tra i due fronti, quello di Gaza e quello del sud del Libano: se non cesseranno le ostilità a Gaza, i combattimenti proseguiranno anche in Libano. L’ex ministro francese ha chiesto di separare i due argomenti, ma Hezbollah deve mantenere il suo ruolo regionale che naturalmente è anche quello dell’Iran, deciso a mostrarsi solidale con la popolazione di Gaza su cui continuano a piovere le bombe.

Sul fronte israeliano c’è la tentazione dell’escalation per neutralizzare la minaccia rappresentata dal movimento sciita, che dispone di un arsenale importante. Per non parlare della pressione esercitata da decine di migliaia di abitanti del nord di Israele, costretti a vivere lontani dalla loro case ormai da mesi mentre le immagini degli incendi provocati dai missili di Hezbollah alimentano il desiderio di vendetta.

Israele è in grado di combattere su due fronti contemporaneamente? È uno degli interrogativi cruciali di questo momento. Una guerra nel sud del Libano avrebbe una portata ben diversa da quella condotta attualmente dallo stato ebraico a Gaza, dove tra l’altro non sta raggiungendo i suoi obiettivi.

A tutto questo si aggiungono la tensione del contesto politico interno israeliano, la posizione problematica di Benjamin Netanyahu (che sembra impegnato in un continuo rilancio nella sua strategia) e una società in conflitto tra i sostenitori di un accordo per liberare gli ostaggi e un’estrema destra violenta che vuole un’escalation. Lo scioglimento del gabinetto di guerra israeliano, arrivato il 17 giugno, è il riflesso di questa situazione, con il rifiuto di Netanyahu di integrare i ministri di estrema destra.

Il destino della guerra e della pace dipende da tutti questi fattori, da entrambe le parti, in una crisi regionale che gli attori esterni non riescono a contenere. In qualsiasi momento il fallimento delle mediazioni rischia di innescare una guerra totale.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it