A quasi un anno dal 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco di Hamas contro Israele, c’è un’assenza di rilievo nella crisi regionale che continua ad aggravarsi: quella dei paesi arabi, che mantengono un comportamento cauto e sono poco attivi sul piano diplomatico, mentre il mondo attorno a loro vive un’inesorabile escalation, con migliaia di morti nella Striscia di Gaza, un Libano stravolto dal conflitto tra Hezbollah e Tel Aviv, i bombardamenti in Siria e Yemen, e l’Iran in attesa di rappresaglie da parte dello stato ebraico.

Ci sarebbero tutti i motivi per mobilitarsi, tentare mediazioni e provare a spegnere gli incendi che minacciano la regione. Eppure non è così, i paesi arabi restano immobili. La spiegazione va ricercata nella trasformazione delle dinamiche regionali degli ultimi anni, che ora sono minacciate dalle crisi in corso.

Primo fatto significativo: nessuno dei paesi arabi che hanno stabilito relazioni diplomatiche con Israele ha deciso di romperle, né quelli che si sono avvicinati per primi allo stato ebraico, come l’Egitto e la Giordania, né i più recenti, come gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein o il Marocco. L’opinione pubblica di questi paesi, quando riesce a esprimersi, è chiaramente solidale con gli abitanti di Gaza. Ma i governi in questione restano in modalità d’attesa.

Questi stati hanno fatto la scelta politica di affidarsi a Israele per la loro sicurezza e il loro sviluppo economico, siglando i cosiddetti accordi di Abramo senza preoccuparsi dei palestinesi, del tutto ignorati in questo processo di riavvicinamento. Oggi, evidentemente, i paesi arabi non si trovano nella posizione di poter impartire lezioni.

Questo “oblio” permette all’Arabia saudita, che alla vigilia del 7 ottobre scorso era sul punto di firmare un accordo simile, di mostrarsi più audace. Il regno ha aggiunto una condizione al raggiungimento di un’intesa con Israele: l’impegno a creare uno stato palestinese. I leader sauditi non sono particolarmente sensibili alla causa palestinese, ma hanno semplicemente colto l’occasione politica.

In settimana il capo della diplomazia saudita Faisal bin Farhan al Saud ha firmato un articolo pubblicato dalla stampa britannica in cui dichiara che la soluzione dei due stati è “più urgente che mai”. Dirlo non costa niente, se poi non si agisce di conseguenza.

Cosa possono fare gli stati arabi? In passato sono stati spesso più attivi, non sempre in modo intelligente. L’aspetto taciuto ma decisivo in questa vicenda è che alla maggior parte di questi paesi fa comodo che che Hezbollah sia indebolito, così come gli altri protagonisti del cosiddetto asse della resistenza filoiraniano, a cominciare dagli huthi dello Yemen, che i sauditi e gli emirati hanno tentato di sconfiggere senza risultati.

Tuttavia, i rapporti tra le monarchie conservatrici del Golfo e Israele non sono indistruttibili, e sarebbero sicuramente messi a dura prova in caso di una guerra totale nella regione o semplicemente di una distruzione definitiva di ciò che resta dei territori palestinesi.

La settimana scorsa il ministro degli esteri giordano Ayman Safadi ha denunciato l’assenza di lungimiranza dei leader israeliani. “Non abbiamo un partner per la pace”, ha dichiarato, parafrasando la famosa frase israeliana a proposito dei palestinesi. Questo raro attacco diretto mostra l’imbarazzo di chi ha scelto di legarsi a Israele ma rischia di perdere credibilità nel cumulo di macerie del Medio Oriente.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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