Donald Trump non ha fatto alcuna dichiarazione di rilievo dopo la sua vittoria elettorale del 5 novembre, eppure l’effetto del voto si fa già sentire nelle due principali zone di conflitto, l’Ucraina e il Medio Oriente. Con conseguenze diametralmente opposte. Da una parte abbiamo Volodymyr Zelenskyj, presidente di un paese in difficoltà militare nel conflitto con la Russia, e che rischia di perdere il sostegno fondamentale degli Stati Uniti. Dall’altra Benjamin Netanyahu, primo ministro di uno stato ebraico in guerra da oltre un anno che da Trump si aspetta una protezione totale.
Netanyahu si trova nella posizione più invidiabile nel nuovo contesto politico, perché sa che avrà carta bianca per portare avanti come meglio crede la sua guerra totale, almeno fino alla cerimonia d’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti, prevista per gennaio.
Il predecessore di Trump, Joe Biden, è di fatto una lame duck, un’anatra zoppa, come dicono gli statunitensi. La sua influenza in questi ultimi mesi di mandato sarà ridotta al minimo, e Netanyahu è pronto ad approfittarne.
Ormai da un anno il primo ministro israeliano resiste alle pressioni di Joe Biden, che avrebbe voluto un cambio di strategia. Fanno eccezione le iniziative israeliane contro l’Iran, i cui obiettivi sono stati negoziati con Washington. Resta il fatto che, fino all’avvicendamento al vertice degli Stati Uniti, Netanyahu non dovrà più preoccuparsi di cosa pensa la Casa Bianca.
Grazie a questa libertà Israele porterà avanti la pulizia etnica nel nord della Striscia di Gaza, senza mai avvicinarsi realmente agli obiettivi fissati. Per evitare qualsiasi rischio, Netanyahu ha addirittura cacciato il suo ministro della difesa Yoav Gallant. Il 7 novembre Gallant aveva dichiarato che Israele aveva raggiunto il suo scopo a Gaza, sottolineando che era arrivato il momento di un accordo per salvare gli ostaggi ancora in vita. L’ormai ex ministro ha accusato Netanyahu di prendere le decisioni da solo, secondo criteri che non sono né militari né politici.
Trump, dal canto suo, lascerà fare fino al suo ingresso alla Casa Bianca. Da quel momento in poi, però, vorrà apparire come l’architetto della pace. A Gaza, in Libano e forse anche in Iran i prossimi due mesi si annunciano terribili.
In Ucraina l’equazione è diversa. Trump ha già fornito indizi chiari: vuole risolvere il conflitto “in 24 ore”. Nessuno sa come sarà possibile, ma è difficile immaginare che una soluzione veloce possa favorire l’Ucraina nel contesto attuale.
La sera del 7 novembre gli alleati europei di Kiev si sono riuniti a Budapest, in Ungheria, a margine di un vertice paneuropeo. Paradossalmente, il padrone di casa era proprio Viktor Orbán, primo ministro ungherese diventato di fatto il principale interlocutore europeo del prossimo presidente statunitense e allo stesso tempo l’unico a mantenere un dialogo con Vladimir Putin.
Come faranno gli europei a impedire che la coppia Trump-Orbán faccia capitolare l’Ucraina in condizioni più favorevoli a Putin che a Zelenskyj? La questione è delicata, anche perché gli europei non vogliono avviare i rapporti con il nuovo presidente statunitense forzando un braccio di ferro. Trump, intanto, ha già minacciato di scatenare una guerra commerciale contro l’Europa.
Sono passate appena 48 ore dall’annuncio della vittoria di Trump, ma il mondo è già diventato ancora più incerto di quanto lo era prima.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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