Una rivoluzione trumpiana sta per abbattersi sul mondo. Le nomine del presidente eletto per gli incarichi principali in politica estera e nell’ambito della sicurezza, arrivate a pochi giorni dalla elezioni, sono chiaramente basate sulla lealtà al capo supremo e sull’adesione al suo programma nazionalista, riassunto dallo slogan “America First”, “Prima l’America”.

Altri punti in comune tra le figure selezionate sono l’ostilità nei confronti della Cina di Xi Jinping, un impegno quasi messianico a favore di Israele e un culto acritico della potenza americana. I profili sono vari: troviamo molti politici di professione ed esperti ma anche un presentatore di Fox News e un compagno di golf di Trump.

Una volta che le nomine saranno confermate dal senato, la nuova squadra si dedicherà a mettere in atto una politica inedita, sostenendo la potenza americana senza però imbarcarsi in avventure militari come accadeva in passato. Questo è il grande cambiamento del trumpismo: scompare l’approccio neoconservatore che voleva imporre la democrazia con la forza, ma non viene sostituito da un isolazionismo o dal disimpegno internazionale. La potenza americana verrà imposta con altri mezzi.

Il fallimento delle avventure in Afganistan e Iraq aveva già prodotto revisioni dolorose durante l’amministrazione Biden, ma con Trump la svolta sarà molto più decisa.

Alcuni esponenti della prossima amministrazione – come il futuro consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz e Marco Rubio, che dovrebbe essere il prossimo segretario di stato – sono vecchi neocon, come vengono chiamati gli interventisti, ma recentemente si sono tutti convertiti all’approccio imposto da Trump. Persino Pete Hegseth, scelto a sorpresa per la guida del Pentagono, si inserisce in questa corrente: ex militare che ha servito in Afganistan e Iraq, è diventato presentatore di Fox News e ha preso le distanza dall’atteggiamento interventista, pur ribadendo che l’esercito americano non abbasserà mai la guardia.

Questa svolta non significa che l’America diventerà isolazionista come lo è stata in alcuni momenti della sua storia, soprattutto dopo la Prima guerra mondiale.

Un primo test arriverà dai rapporti con la Cina. Il punto in comune tra tutte le persone scelte da Trump, infatti, è l’ostilità nei confronti del Partito comunista cinese. Marco Rubio è stato persino sanzionato da Pechino per il ruolo ricoperto al congresso sulla questione degli uiguri e su Hong Kong.

La rivalità con la Cina resterà al centro della politica di Donald Trump, ma si concentrerà più sulla tecnologia (il vero ambito strategico del ventunesimo secolo), sui dazi e sulle pressioni nei confronti degli europei affinché si allineino alla politica americana. Questa evoluzione non è necessariamente una buona notizia per Taiwan, che continua a subire la minaccia militare della Cina.

Restano tante zone grigie in cui la futura amministrazione dovrà fare delle scelte: dalla guerra in Ucraina, con l’incertezza sul sostegno americano contro l’invasore russo, fino all’Iran, con la volontà di Benjamin Netanyahu (a cui la prossima amministrazione sarà molto vicina) di attaccare frontalmente Teheran.

Una settimana dopo il voto nessuno può avere dubbi su quale sarà la missione principale della nuova squadra di governo: “Prima l’America”. Siamo tutti avvisati.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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