Le attrazioni turistiche esistono da tempo immemore. Prima dei parchi divertimenti di Disneyland e della torre Eiffel ci furono i mitici giardini pensili di Babilonia e la muraglia cinese. Nell’antica Roma arrivavano ogni anno centinaia di migliaia di turisti per ammirare gli incredibili monumenti, il Colosseo e i suoi gladiatori, i teatri e i loro spettacoli, le strade piene di folla, tutte cose da vedere e da vivere.
Fare dei viaggi solo per il gusto di farlo è una cosa nuova. Un tempo l’unico momento in cui le persone lasciavano le loro case era per fare i pellegrinaggi religiosi, alla Mecca se erano musulmani o in terra santa per i cristiani.
In generale i viaggi erano rari e difficili, e tutti credevano che la semplice curiosità non fosse sufficiente a mettersi in viaggio. Si credeva che le strade fossero piene di pericoli e di incognite e che mettersi in cammino fosse una faccenda seria e un rischio da affrontare con grande attenzione.
Tristi attrattive
Negli ultimi anni è emerso in molte città del mondo un nuovo genere di turismo. Invece di concentrarsi sulla ricerca del divertimento, dell’adrenalina o del cibo, roba da parchi a tema e centri commerciali, il “turismo oscuro” rende attraenti la tristezza e l’infelicità, la povertà e i rifiuti.
Le visite ai campi di concentramento hanno lo scopo di creare un punto di contatto con la storia
Tra gli esempi più famosi ci sono le baraccopoli delle grandi città in varie parti del mondo. È noto che in India, un paese che si presenta come “India favolosa” nelle sue pubblicità turistiche, i viaggiatori possano fare visite guidate nelle grandi baraccopoli.
A Dharavi, una delle più grandi bidonville di Mumbai, si vedono regolarmente piccoli gruppi di turisti che camminano nei suoi affollati vicoli che puzzano di escrementi umani e animali. Le enormi pile d’immondizia, rese famose da film come The millionaire e Lion-La strada verso casa, sono una delle tappe di queste visite organizzate, e permettono ai turisti (perlopiù bianchi) di fissare esterrefatti gli improbabili gruppi di bambini e adulti che provano a guadagnarsi da vivere coi rifiuti.
Più di recente sono entrati nel circuito di questo turismo anche alcuni siti inquinati o le spiagge dove si ammassano per chilometri bottiglie di plastica o altri rifiuti. Altre varianti del turismo oscuro includono le prigioni ancora attive – ricche forse di un’aria di pericolosità che ne aumenta il fascino – e perfino orfanotrofi dove vivono povere creature abbandonate, neonati lasciati in cestini di fronte ai supermercati o bambini più grandi trovati mentre frugano tra i rifiuti di una qualche città del mondo sviluppato. Qui possono essere ammirati mentre bramano di ricevere abbracci, baci e attenzioni che altrimenti non avrebbero.
Alcuni di questi bambini non sono davvero orfani ma sono stati “subaffittati” da genitori poveri in modo che i proprietari di questi “orfanotrofi” possano fare qualche soldo. Si fa leva sui sentimenti dei turisti, il cui conseguente senso di colpa prende la forma di donazioni economiche.
Senza verità storica
Il turismo oscuro non è un’idea del tutto nuova. Dopo la fine della seconda guerra mondiale e la fine della Germania nazista, i campi di concentramento dove milioni di ebrei erano stati massacrati, non furono del tutto abbattuti. Qualche tempo dopo, i campi ripuliti sono stati aperti alle visite del pubblico.
Il senso, in questi esempi precoci, era di creare un punto di contatto con la storia, per quanto crudele e terribile, promuovendo un esercizio di rispetto per i morti e la presa di coscienza del fatto che il male avesse prevalso sul bene. Molte delle persone che hanno visitato gli ex campi di concentramento descrivono l’esperienza come profondamente inquietante, come se lo spirito e l’aura di pura malvagità aleggiassero nel terreno, nell’aria e nei pochi letti o arredi conservati per mostrare come erano trattati i prigionieri.
Il turismo oscuro di oggi ha una finalità completamente diversa. Non esiste alcuna verità storica o consapevolezza empatica da trarre nella visita a una baraccopoli, nell’osservare inebetiti delle vite distrutte dall’immondizia, dalla povertà e dalla mancanza di gabinetti degni di tal nome. Al contrario il turismo oscuro si basa semplicemente su un rovesciamento della formula del turismo più tradizionale.
Se le persone si sentono bene visitando Disneyland, un ristorante elegante o le meraviglie del mondo perché si sentono fortunate ed elette, rallegrandosi di poter vedere cose cui molti altri non hanno accesso, il turismo oscuro fa leva su sensazioni opposte. Le persone che osservano i loro simili rovistare tra i rifiuti delle bidonville traggono sollievo dal non dover essere ridotte a oggetto di quei tour turistici.
Monetizzare la miseria
Sono ancora fortunate, però il loro piacere non si basa sul godimento di qualcosa di piacevole in sé, bensì solo sul confronto. Le loro vite sembrano fortunate e felici perché sono lontane dalle vite o dai luoghi di altre persone meno fortunate: spiagge sporche dove la sabbia è deturpata dal petrolio, le strade sono invase da esalazioni tossiche, le vite non hanno tempo per alcun piacere ma solo per la sopravvivenza, e così via.
Non tutte le persone che guadagnano grazie al turismo oscuro sono tristi o dispiaciute di vendere questa mercanzia. In Nepal gli orfanotrofi offrono regolarmente escursioni ai turisti occidentali che vogliono “vedere i bambini” e l’India non si vergogna affatto del fiorente settore del turismo delle baraccopoli.
Molti degli uffici del turismo di questi paesi sentono di aver ottenuto qualcosa di spettacolare, monetizzando la miseria che un tempo si sforzavano così duramente di nascondere nel tentativo di attrarre il denaro dei turisti. Adesso non è più così, e dopo aver offerto visti tradizionali o elettronici all’arrivo, esibiscono le loro sofferenze come se fossero qualcosa da consumare invece che da nascondere in qualche angolo oscuro. È stata questa la più grande innovazione tra tutte. Nella loro definizione, “divertirsi” non significa più vivere dei bei momenti, ma semplicemente guardare altri mentre vivono momenti terribili.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano pachistano Dawn.
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