Questo articolo è stato pubblicato il 1 novembre 2002 nel numero 461 di Internazionale.
Il mio ruolo in questo dramma è cominciato il 25 ottobre, intorno alle due del pomeriggio. Alle 11.30 avevo parlato per la prima volta al cellulare con le persone che avevano catturato gli ostaggi. Alle 13.30 ero arrivata al centro operativo.
Un’altra mezz’ora era passata per definire la questione: qualche sconosciuto decideva qualcosa dietro porte che continuavano a sbattere. Finalmente mi hanno portato nella zona, dove c’era un cordone di camion. Mi hanno detto: “Va’, provaci. Magari ci riesci”. Con me è venuto il dottor Roshal. Ci siamo trascinati fino alle porte, non ricordo neppure come: avevamo paura. Tanta.
Entriamo nell’edificio. Gridiamo: “Ehi, c’è qualcuno?”. L’unica risposta è il silenzio. Sembra che in tutto il teatro non ci sia anima viva. Mi metto a gridare: “Sono la Politkovskaja! Sono la Politkovskaja!”. Comincio lentamente a salire la scala sulla destra – il dottore dice che sa dove andare. Anche nel foyer del primo piano c’è silenzio, buio e freddo. Non un’anima. Grido di nuovo: “Sono la Politkovskaja!”.
Finalmente da quello che era stato il bancone del bar emerge un uomo. Sul viso ha una maschera nera piuttosto sottile, i tratti del viso si distinguono perfettamente. Nei miei confronti non è aggressivo, ma il dottore gli sta antipatico. Perché? Non riesco a capirlo. Ma cerco comunque di placare gli animi che stanno per infiammarsi. “Allora dottore, vuoi fare carriera?”, insiste la “maschera”.
Questo dottore ha 70 anni, è un grande studioso, e ha già fatto tante cose importanti nella sua vita che per lui pensare alla carriera non ha senso: se l’è già costruita. Lo dico ad alta voce. Comincia un battibecco. È chiaro che bisogna “abbassare i toni”, altrimenti…
Un destino senza varianti
La maschera sottile si allontana nel buio del foyer e continua a borbottare: “Perché dici di aver curato i bambini ceceni, dottore?”. Ancora delle esclamazioni sgradevoli e confuse, e per questo mi limito a riportarne il senso generale: “Tu, dottore, parli in particolare dei bambini ceceni. Quindi i bambini ceceni per te non sono come gli altri. Noi ceceni non siamo persone?”. La solita storia. Mi intrometto, ma non per dovere, è solo che non lo sopporto più. Dico: “Tutti gli uomini sono uguali. Hanno la stessa pelle, le stesse ossa, lo stesso sangue”. Inaspettatamente questo concetto non troppo originale ha un effetto calmante.
Chiedo di sedermi sull’unica sedia del foyer, a cinque metri dal bancone del bar, perché le gambe mi cedono. Mi danno il permesso. Le suole delle scarpe scivolano su una melma rossastra. Osservo con prudenza perché ho paura di sembrare troppo curiosa ma ho ancora più paura di calpestare del sangue raggrumato. Però, grazie a Dio, forse è gelato alla frutta. Visto che non è sangue, i brividi si calmano. Aspettiamo una ventina di minuti: sono andati a chiamare il “capo”.
E intanto dall’alto, dalla balconata, ogni tanto si affacciano delle teste mascherate. Alcune maschere sono spesse e nascondono completamente i tratti del viso. Altre sono sottili come quelle del primo uomo che abbiamo incontrato, quello che stava dietro al bancone.
“Eri tu a Chotuni?”, chiedono le teste. “Sì”. Le “teste” sono soddisfatte. Chotuni (un villaggio nella regione di Vedeno) diventa il mio lasciapassare: era lei, possiamo parlarci.
“E lei di dov’è?”, chiedo a quello che sta dietro il bancone.
“Io sono di Tovzeni”, risponde. “Qui ce ne sono molti di Tovzeni e in generale della regione di Vedeno”.
Poi c’è qualche confuso segnale di una tragedia in corso: alcune maschere arrivano, altre se ne vanno – il tempo inghiottito dal nulla stringe il cuore con presentimenti assurdi. E il “capo” ancora non si vede. Magari adesso decidono di spararci.
La maschera
Finalmente arriva un uomo in tuta mimetica e con il viso completamente coperto, grosso, tarchiato e con lo stesso identico portamento dei nostri ufficiali dei reparti speciali, sempre attenti alla forma fisica. “Seguitemi”, dice. Le gambe non mi reggono, eppure mi muovo.
Ci ritroviamo in un locale sporco accanto al buffet saccheggiato. Dietro c’è un rubinetto d’acqua. Qualcuno cammina alle nostre spalle e mi volto; mi rendo conto di apparire nervosa, ma che ci posso fare? Eppure sembra che io sia una con una grande esperienza di rapporti con i terroristi in situazioni estreme… È il “capo” in persona a restituirmi l’uso della ragione. “Non dovete guardare dietro! Parlate con me, perciò guardate me”. “Chi è lei? Come si chiama?”, domando senza sperare troppo in una risposta. “Bakar. Abubakar”.
La maschera se l’è già alzata sulla fronte. Il viso è aperto, largo, e ha un che di tipicamente militaresco. Sulle ginocchia ha un mitra. Solo alla fine del nostro colloquio se lo mette dietro la schiena e addirittura si scusa: “Ci sono così abituato che non me ne accorgo più. Ci dormo, ci mangio, è sempre con me”. Ma anche senza queste spiegazioni per me è chiarissimo: appartiene a quella generazione di ceceni che non hanno fatto altro che combattere per tutta la vita. “Quanti anni ha?”. “Ventinove”. “Ha combattuto in tutte e due le guerre?”. “Sì”. “Non si è rifugiato in Georgia?”. “No. Non mi sono allontanato dalla Cecenia”.
Esiste una nuova generazione di ceceni: Bakar è uno di quelli che negli ultimi dieci anni hanno conosciuto solo il mitra e le foreste, e prima hanno avuto appena il tempo di finire la scuola, e così, poco a poco, vivere nella foresta per loro è diventato l’unico modo di vivere possibile. Un destino senza varianti.
“Veniamo al dunque?”.
“D’accordo”.
“Innanzitutto i bambini più grandi. Bisogna liberarli, sono bambini”. È il primo problema che Sergej Jastrzhembskij, collaboratore del presidente russo, mi ha chiesto di affrontare con “loro”.
“Bambini? Qui non ci sono bambini. Nei rastrellamenti prendete i nostri bambini quando hanno dodici anni, e noi qui ci terremo i vostri”.
“Per vendicarvi?”.
“Per farvi capire cosa si prova”.
Sono tornata molte altre volte sui bambini, pregandoli di fare delle concessioni. Per esempio portargli del cibo. Ma le risposte sono sempre state categoriche. “Ai nostri bambini durante i rastrellamenti non danno da mangiare, devono resistere anche i vostri”.
Nel mio elenco c’erano cinque richieste: cibo per gli ostaggi, articoli di igiene personale per le donne, acqua, coperte. Anticipo i fatti: siamo riusciti a metterci d’accordo solo sull’acqua e i succhi di frutta. Nel senso che io li avrei portati, avrei gridato dal basso di averli con me e allora mi avrebbero lasciato passare.
“Mi farete entrare più di una volta? Non riuscirò a portare granché in una volta sola… C’è tantissima gente. Magari potreste far venire con me anche un uomo”. “Va bene”. “Potrei portare un nostro giornalista?”. “Sì, e anche qualcuno della Croce rossa”. “Grazie”.
Le richieste
Comincio a chiedere cosa vogliono. Ma politicamente Bakar è in difficoltà. Lui è “soltanto un soldato” e nient’altro. Spiega a lungo e confusamente a che serve questa azione, e si possono trovare quattro punti. Primo, Putin deve “dire una parola”: annunciare la fine della guerra. Secondo: entro ventiquattr’ore deve dimostrare che non sono solo parole, per esempio deve ritirare le truppe da una regione.
“Da quale regione? La vostra? Da Vedeno?”.
“Sei una spiona? Fai un interrogatorio proprio come una spiona. Basta, vattene!”.
Mi rendo conto che non posso andarmene, anche se mi piacerebbe moltissimo. Per questo pronuncio parole quasi di scusa – sono un’idiota, certo: “Vedete, dobbiamo sapere cosa volete. E dobbiamo saperlo con precisione. Altrimenti…”. Continuo a impuntarmi sulle parole. Il mio cervello si scontra con un problema superiore alle sue forze: cercare di salvare gli ostaggi, dato che hanno accettato di parlare con me, e allo stesso tempo non perdere la dignità. Ma purtroppo non riesco a venirne a capo. Sempre più spesso non so cosa dire, e blatero delle sciocchezze, purché Bakar non dica: “Basta!”, e io non debba andarmene a mani vuote, senza aver ottenuto niente. Così ci avviciniamo al terzo punto del “loro” piano.
Ma proprio allora Bakar riceve una telefonata sul cellulare da Boris Nemtsov. Questo telefono i combattenti l’hanno preso a uno degli ostaggi, un musicista dello spettacolo Nord-Ost, e ora lo usano per le loro conversazioni. Bakar, dopo aver parlato con Nemtsov, riceve una telefonata “da casa”, dalla regione di Vedeno, in Cecenia.
Guerra autonoma
Dopo il colloquio con Nemtsov Bakar comincia visibilmente a innervosirsi. In seguito mi avrebbe detto che Nemtsov lo prendeva in giro: il giorno prima aveva detto che la guerra in Cecenia poteva cessare, mentre oggi, il 25 ottobre, sono ripresi i rastrellamenti. Allora gli chiedo: “Voi a chi credereste? Chi può darvi la sua parola per confermare il ritiro delle truppe?”. Viene fuori che si fidano di lord Jadd (il capo dell’assemblea parlamentare del consiglio d’Europa).
Passiamo al “loro” terzo punto. È semplice: se saranno attuati i primi due, libereranno gli ostaggi. “E voi?”. “Resteremo a combattere. Accetteremo la lotta e moriremo in battaglia”. “Ma voi in realtà chi siete?”, chiedo, e mi spavento e penso, oddio, ho esagerato! “Un battaglione di esplorazione e diversione”. “Siete tutti qui?”. “No, solo una parte. Siamo stati selezionati per questa operazione. Hanno preso i migliori. Perciò anche se moriremo ci sarà sempre chi porterà avanti la nostra causa”. “Ubbidite a Maskhadov?”.
Noto un certo turbamento e poi di nuovo una grande irritazione. Le spiegazioni sconnesse possono ridursi alla formula: “Sì, Maskhadov è il nostro presidente, ma noi combattiamo per conto nostro”.
È la conferma dei peggiori timori: si tratta di uno dei reparti che in Cecenia fanno tutto da soli. Hanno una loro guerra autonoma, ed è assolutamente radicale. E se ne infischiano di Maskhadov: perché non è un estremista. Proseguo: “Eppure voi lo sapete, i colloqui di pace sono condotti da Iljas Akhmadov in America e da Akhmed Zakaev in Europa – i rappresentanti di Maskhadov. Magari volete mettervi in contatto con loro, oppure potrei chiamarli io. Non dovete fare altro”.
“E perché? A noi non piacciono. Conducono questi negoziati con lentezza perché non hanno nessuna fretta, e noi intanto moriamo nelle foreste. Ci hanno stufato”.
Nel “loro” piano non ci sono altri punti. Bakar aggiunge molte frasi forti: “Per un anno e mezzo le persone hanno chiesto di poter fare i kamikaze e di venire qui”. “Siamo venuti a morire”. Non dubito affatto che siano condannati e pronti a morire – e a portare con sé tutte le vite che vorranno.
Il cellulare squilla. Bakar ascolta e comincia a gridare: “Non telefonate più. Questo è un ufficio. Disturbate il mio lavoro”.
“Posso parlare con gli ostaggi?”.
“È impossibile”. Ma dopo cinque minuti, dice a un “fratello” seduto proprio dietro di me: “Portali, va bene”.
Quello fa uscire dalla sala una ragazza bella e spaventatissima, Masha, che non riesce a spiccicare parola per il terrore e la debolezza – gli ostaggi non hanno mangiato niente. Bakar è irritato dal suo balbettio e ordina di portarla via. “Prendetene una un po’ più grande”. Mentre il “fratello” va nella sala e torna, Bakar mi spiega quanto sono nobili. Ci sono tante belle ragazze nelle loro mani – e Masha è veramente bellissima – ma non hanno alcun desiderio, tutte le loro forze sono assorbite dalla lotta per la liberazione della loro terra. Interpreto le sue parole nel senso che devo essergli grata di non aver violentato Masha.
Parliamo brevemente di morale e di etica, se così si può dire. “Non mi crederete, ma moralmente qui ci sentiamo meglio che nei tre anni di guerra. Finalmente facciamo qualcosa di concreto. Siamo come pesci nell’acqua, qui. Stiamo meglio di quanto non siamo mai stati. Sarà bello morire. Aver partecipato alla storia è un grande onore. Non ci crede? Vedo che non ci crede. Io invece ci credo moltissimo. Era un anno che nell’ambiente militare ceceno se ne parlava. Vista l’inerzia del virtuale Maskhadov molti reparti combattenti sono rimasti tutto l’inverno nelle foreste e sono diventati impazienti: non si può uscire, non si riesce a combattere, bisogna fare qualcosa e dal comandante in capo non arrivano ordini. Man mano che questi sentimenti crescevano i reparti si sono disgregati oppure si sono radicalizzati, e di fatto hanno cominciato una loro guerra sulla quale Maskhadov non ha nessuna autorità”.
Un altro Kursk
Il “fratello” porta un’altra bella ragazza con i nervi molto scossi. “Sono Anja Andrijanova, inviata di Moskovskaja Pravda. Cercate di capirci: noi siamo già rassegnati a morire. Ormai l’abbiamo capito: il paese ci ha abbandonato. Noi siamo un altro Kursk. Se volete salvarci, scendete in piazza. Se mezza Mosca implorerà Putin, riusciremo a sopravvivere. Per noi è chiarissimo: se oggi moriremo, domani in Cecenia comincerà un nuovo massacro che poi rimbalzerà qui, provocando nuove vittime”.
Anja parla senza fermarsi. Bakar è nervoso, ma Anja non se ne accorge. Ho di nuovo paura che Bakar cominci a dimostrare la sua forza. Finalmente Anja viene portata via. E stabiliamo che adesso penserò a portare dell’acqua. Bakar a sorpresa aggiunge spontaneamente: “Potete portare anche dei succhi di frutta”. “Per voi?”. “No, noi ci prepariamo a morire, non beviamo e non mangiamo niente. Per loro”. “E magari qualcosa da mangiare? Almeno per i bambini”. “No. I nostri soffrono la fame. Che soffrano anche i vostri”.
Questa giornata di storia è finita. Poi c’è stato l’attacco. E io continuo a chiedermi: abbiamo fatto tutto il possibile per contribuire a evitare che ci fossero vittime? È stata davvero una grande “vittoria”? E io personalmente sono servita a qualcuno con i miei succhi e i miei tentativi sull’orlo del baratro?
La mia risposta è sì, sono servita. Ma non abbiamo fatto tutto il possibile. Perché abbiamo ancora molto davanti a noi, anche se alle nostre spalle c’è già troppo. La tragedia del Nord-Ost non è nata dal nulla e non segna la fine. Adesso vivremo nel terrore costante vedendo uscire di casa i bambini e gli anziani: li rivedremo di nuovo? Proprio come ha vissuto in questi ultimi anni la gente in Cecenia.
Ci sono solo due varianti. La prima: finalmente ci renderemo conto che più aumentano la violenza, il sangue, le vittime, i sequestri e le umiliazioni, più si moltiplicano quelli che vogliono vendicarsi, nonostante tutto e malgrado tutto. E più arrivano nuove reclute nell’esercito di chi vuole morire vendicandosi. E poiché questa guerra non si combatterà sul campo di battaglia, ma accanto a noi e con la partecipazione di gente che non c’entra niente – noi tutti – saremo condannati a un altro Nord-Ost, e nessuno potrà sentirsi sicuro in nessun luogo, per strada come nel proprio appartamento.
Un uomo con le spalle al muro inventa metodi sempre più astuti per vendicarsi. La seconda variante è difficile, impegnativa, ma almeno si muove in direzione di un miglioramento: bisogna cominciare a parlare con colui che resta aggrappato all’ultimo filo del suo potere, con Maskhadov. Altrimenti saremo condannati a negoziati come quelli del Nord-Ost, segnati alla disperazione. Quando la posta in gioco è la vita degli innocenti.
(Traduzione di Giuseppina Cavallo)
Questo articolo è stato pubblicato il 1 novembre 2002 nel numero 461 di Internazionale.
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