St. Vincent, Hang on me
Sesso, droga e celebrità. Sono questi i tre temi al centro di Masseduction, il nuovo disco di St. Vincent. In questi anni, complici le relazioni con le attrici Cara Delevingne e Kristen Stewart, Annie Clark, vero nome della musicista statunitense, è stata una delle prede preferite delle riviste di gossip. E forse in mezzo ai lustrini di Hollywood si è sentita un po’ fuori posto.
Masseduction suona come una risposta a questo mondo, come una corsa a smascherare l’inconsistenza di tante cose che ruotano attorno a Hollywood. Non è un caso che anche l’apparato retorico e iconografico dell’album sia molto kitsch (tra le ispirazioni per la copertina e i videoclip St. Vincent ha citato l’artista Jeff Koons) e surreale (per annunciare il disco la musicista ha inscenato una conferenza stampa nella quale faceva un discorso lungo e sconclusionato).
Al tempo stesso, nel suo nuovo lavoro St. Vincent suona pop come non mai. Il singolo New York, una sentimentale ballata al piano, è meno spigoloso dei brani del passato (il produttore del disco non a caso è Jack Antonoff, uno che ha lavorato con Taylor Swift e Lorde). Masseduction, il pezzo che dà il titolo al disco, cita Charles Mingus (“Black saint, sinner lady”, canta St. Vincent), ma ha un arrangiamento troppo plasticoso.
Messeduction è stato accolto in modo trionfale dalla critica internazionale: su Metacritic, un sito che raccoglie le recensioni della stampa internazionale e fa una media dei voti, mentre scrivo il disco ha un punteggio di 90 su 100. Però l’entusiasmo sembra ingiustificato, perché questo è forse l’album meno riuscito di St. Vincent.
In dischi come Marry me e Strange mercy, dietro al rigore formale di Annie Clarke si nascondeva un’emotività profonda e complessa. Qui domina il manierismo, già presente a piccole dosi nell’ottimo St. Vincent, uscito nel 2015. Il gusto per la teatralità, preso in prestito dal maestro David Byrne, suona meno a fuoco. Non a caso i pezzi più belli del nuovo disco sono proprio quelli in cui cadono gli orpelli: il brano d’apertura Hang on me, per esempio, è un bozzetto crudo e intenso, mentre Happy birthday, Johnny ha bisogno di pochi strumenti per arrivare dritta al punto.
Masseduction è il lavoro più ambizioso di St. Vincent, ma è arrivato in un momento in cui l’ispirazione di Annie non era ai massimi livelli. Il suo intento satirico resta molto a livello teorico e non si traduce in soluzioni musicali brillanti. È un disco discreto, ma lontano dalla qualità alla quale ci ha abituato la chitarrista di Tulsa. Qualcosa, almeno per il momento, si è perso sotto i flash dei fotografi.
Sharon Jones & the Dap-Kings, Matter of time
Sharon Jones era una musicista straordinaria. Soprattutto durante i concerti, quando, supportata dai Dap-Kings, sprigionava tutta la sua energia e il suo carisma. Retorica a parte, sembrava avere dentro di sé un po’ dello spirito di James Brown e Otis Redding.
Nata in Georgia e cresciuta a New York, Jones era diventata famosa solo in età adulta, pubblicando il suo primo disco dopo i quarant’anni. Il 18 novembre 2016 è morta di cancro al pancreas, ma quasi fino alla fine ha continuato a scrivere musica e a fare concerti. Prima di morire, Sharon ha fatto in tempo a registrare un ultimo disco, Soul of a woman, che uscirà postumo il 17 novembre. Questo è il primo singolo estratto.
Fumio Itabashi, Watarase
Il 3 novembre la casa discografica giapponese Mule Musiq pubblicherà la ristampa di Watarase, un disco del 1982 del pianista Fumio Itabashi, nato nel 1949 a Tochigi, nella regione di Kantō. La Mule Musiq ha addirittura paragonato lo stile di Itabashi a quello del Keith Jarret di The Köln Concert. Hanno esagerato, ma questo album ha comunque un grande fascino.
Watarase raccoglie alcuni standard jazz, come Someday my prince will come, altri brani scritti da Itabashi ma anche interpretazioni del repertorio del pianista sudafricano Abdullah Ibrahim. Nei prossimi mesi Itabashi, che in passato ha scritto anche diverse colonne sonore per il cinema, rimetterà in piedi anche il suo trio e tornerà in tour.
Noel Gallagher’s High Flying Birds, Holy mountain
Una settimana dopo aver scritto che il giochino della rivalità tra fratelli non funziona più bene come una volta, eccomi a scrivere ancora dei Gallagher, i Sandra e Raimondo del rock. Quando si dice la coerenza. Un paio di giorni dopo che Liam ha pubblicato il suo primo disco solista As you were, quasi a fargli un dispetto, Noel ha messo online il suo nuovo singolo Holy mountain. A quanto pare i loro uffici stampa stanno facendo un buon lavoro.
Proviamo a parlare di musica: Holy mountain, che forse nel titolo cita Alejandro Jodorowsky o forse no, è un pezzo pop che omaggia il glam degli anni settanta. Il riff di flauto è preso da un pezzo degli Ice Cream chiamato Chewing gum kid, mentre gli “ooh oh” fanno venire in mente Ca plane pour moi. Altri hanno fatto notare una somiglianza inquietante con She bangs di Ricky Martin, che io sinceramente non trovo.
Noel Gallagher come al solito è diabolico: la melodia del pezzo ti resta attaccata dopo un paio di ascolti e non te la levi più dalla testa. Però dal suo nuovo lavoro Who built the moon?, registrato insieme al produttore David Holmes e da lui annunciato come un disco psichedelico e sperimentale, è lecito aspettarsi molto di più.
Lorenzo BITW, 27 (feat. rAHHH)
Branko è un dj e produttore portoghese, che una volta al mese cura un programma sulla radio online Nts. Con la sua casa discografica, la Enchufada, a luglio ha pubblicato una compilation di musica proveniente da varie parti del mondo: Lisbona, Brasile, Sud Africa, Perù e non solo.
Nel mucchio ci sono anche due musicisti italiani: Populous, che quest’anno ha pubblicato il bellissimo Azulejos, e Lorenzo BITW, che insieme al britannico rAHHH ha registrato questo inedito intitolato 27, un brano elettronico costruito su ritmiche sincopate simil cumbia ed eleganti arpeggi di chitarra. Tutta la compilation è molto interessante, quindi consiglio di ascoltare anche gli altri pezzi.
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