Arctic Monkeys, Star treatment
Gli Arctic Monkeys hanno fatto un passo avanti coraggioso con il loro nuovo disco, Tranquillity Base Hotel & Casino. Dopo il successo planetario di AM, osannato da critica e pubblico, hanno tirato fuori un album spiazzante e sorprendentemente maturo. Il leader della band, Alex Turner, inglese ormai trapiantato a Los Angeles, è sempre più il padre padrone del gruppo e stavolta non si è fatto carico solo della scrittura e di buona parte delle registrazioni, ma anche della produzione insieme a James Ford. Ha composto i nuovi brani con un pianoforte a coda, in quasi totale isolamento. Forse è per questo che il disco ha un tono cantautorale ed è assai lontano dal rock degli esordi di Whatever people say I am, that’s what I’m not.
Tranquillity Base Hotel & Casino è un’amara riflessione sulla celebrità, ambientata in un mondo retrofuturista, dove il protagonista vaga tra hotel, casinò e paesaggi lunari (Tranquillity base è il nome dato dall’astronauta Neil Armstrong al luogo dell’allunaggio dell’Apollo 11). A tratti è spaventato dalla realtà che lo circonda (l’America di Trump è appena evocata, ma è onnipresente nell’ombra) e a volte riflette sul rapporto tra esseri umani e tecnologia (diverse canzoni fanno riferimenti ai social network). A guidarlo in questo viaggio c’è la nuova veste sonora degli Arctic Monkeys, a metà strada tra il David Bowie di Space oddity, John Lennon, Nick Cave (non a caso omaggiato dalla band nel 2016 con la cover di Red right hand) e la musica da ascensore. Praticamente non ci sono chitarre e il risultato finale è molto americano, o per meglio dire losangelino.
I testi di Alex Turner, che è sempre stato bravo a scrivere, qui toccano vette alte. Per esempio in Star treatment, il pezzo che apre l’album (memorabili i versi “I just wanted to be one of The Strokes, now look at the mess you made me make” e “So who you gonna call? The martini police?”). Tranquillity Base Hotel & Casino mantiene per tutta la sua durata un’atmosfera cinematografica che dà forza alle canzoni.
L’impressione però è che la svolta di Turner sia stata un po’ troppo improvvisa e radicale, e che quindi la sua scrittura non riesca sempre a stare dietro alle idee. Quando le cose coincidono, i risultati sono eccitanti, come nel pezzo che dà il titolo al disco e nella cupa Science fiction. Ma diversi brani suonano statici e a tratti Turner sembra troppo compiaciuto, come se si mettesse in posa. Insomma, è facile entrare nell’atmosfera del disco e rimanerci impigliati. Ma è altrettanto difficile lasciarsi andare e godersi queste canzoni fino in fondo, come se mancasse un po’ di spontaneità. Promossi, ma con riserva.
Beach House, Dark spring
I Beach House stavolta sono tornati in grande forma. Il nuovo disco, intitolato 7, è uno dei migliori della loro carriera, e riesce anche a movimentare le acque rispetto al solito passo felpato al quale ci aveva abituato la band di Baltimora. L’apertura dell’album, Dark spring, è sontuosa e ricorda i My Bloody Valentine di Loveless. Lemon glow è un classico brano alla Beach House, ma di quelli ispirati. Dive colpisce fin da subito, così come il minimalismo di Black car.
Certo, nel complesso 7 non si discosta molto dal suono della band di Baltimora. Ma per il momento non abbiamo nulla di cui lamentarci, e ci godiamo questi brani sognanti e dilatati.
Childish Gambino, This is America
Nei giorni scorsi negli Stati Uniti si è parlato tanto di questa canzone. Merito soprattutto del notevole video di Hiro Murai, nel quale Childish Gambino, alter ego musicale dell’attore e regista Donald Glover, mette in scena la sua visione dell’America contemporanea, denunciando il razzismo e la violenza che dilagano nel paese.
Childish Gambino mette insieme con naturalezza il gospel e la trap. Nel ritornello e nelle strofe si fa aiutare dalla créme del rap statunitense, da Young Thug ai Migos. E conferma di essere un ottimo comunicatore, perché sa costruire attorno alla sua musica un immaginario ampio.
Il pezzo è interessante, ma il video ancora di più. Ma qual è il significato? Forse vuole dirci che “Gli Stati Uniti sono un posto dove i neri sono inseguiti e uccisi a colpi di pistola, e dove i neri ballano e cantano per non pensare – loro per primi, ma forse anche tutto il resto del paese – a questa carneficina”, ha scritto Spencer Kornhaber nell’articolo dell’Atlantic che abbiamo tradotto questa settimana sul sito di Internazionale. Se volete approfondire la questione, vi consiglio di leggerlo.
Deltatron, Ego trip
Il producer peruviano Deltatron è una delle persone che stanno dietro alla Terror Negro, una delle etichette indipendenti più vivaci nel panorama latinoamericano. Nel suo ultimo disco, Ego trip, Deltatron mette l’elettronica al servizio dei ritmi locali, partendo dalla cumbia. Ma ci mette dentro un po’ di tutto, dal dembow alla trap. Provate a restare fermi mentre ascoltate questo pezzo.
Simian Mobile Disco, Defender
È difficile che un album dei Simian Mobile Disco sia deludente. Il duo britannico riesce ogni volta a fare qualcosa di interessante, e in questi anni ha spaziato dai ritmi da club di Delicacies alle sperimentazioni analogiche di Whorl. Il nuovo lavoro del gruppo, Murmurations, è stato registrato insieme al coro femminile Deep Throat Choir e va messo nella seconda categoria, quella della ricerca sonora. È il loro primo album con delle parti cantate da un po’ di tempo a questa parte. Ma non sono parti vocali come quelle del passato, perché il Deep Throat Choir è organico alla parte strumentale. Il risultato è ipnotico e coinvolgente.
Il gruppo formato da James Ford (sì, proprio il produttore degli Arctic Monkeys) e Jas Shaw purtroppo di recente ha cancellato il tour statunitense perché Shaw soffre di una rara malattia. Tanti auguri di buona guarigione, quindi.
P.S. Playlist del 2018 come sempre aggiornata. Buon ascolto!
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