Tangerinn si apre con due amiche, in un incontro che per rapporto di potere, personalità e temi di confronto mi ha ricordato le protagoniste di Il profilo dell’altra, di Irene Graziosi. Mina non ha ancora trovato il suo sogno, il suo carattere, non si è ancora scoperta e ha trascorso l’attesa a Londra, in una distanza fisica ed emotiva dalla sua famiglia. Il riavvicinamento avviene alla morte del padre, al quale si rivolge in seconda persona, che la costringe a prendere un volo verso la Sicilia e a spogliarsi di tutto quanto si è messa addosso per essere la donna interessante che frequenta le persone e gli ambienti giusti. L’esordio di Emanuela Anechoum è un romanzo costruito per accumulo, di ricordi – non importa se reali o percepiti –, di sensazioni, di contraddizioni generazionali e familiari. Le frasi brevi che racchiudono analisi profonde sono forse la sintesi della stessa Mina, una donna spigolosa e non finita, in un paesino sul mare dove chiunque sembrasse fuori posto gravitava intorno al bar del padre. La figura paterna, Omar, il suo Marocco, le sue ceneri aleggiano come fantasmi sul racconto di Mina: verrebbe quasi da dire che la riportano a casa, alle sue radici, alla sua identità, ma sono concetti sfuggenti, cose che non bastano. E, come dice lo stesso Omar alla fine, se non troviamo le cose che ci bastano, almeno avremo trovato qualcos’altro. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1547 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati