È bello leggere un libro che è profondamente legato a una città e, in un eccesso di ambientazioni milanesi e romane, Bologna è un piacevole cambio di scenografia. Di questi tempi, qualsiasi libro di un’autrice italiana che accenni appena a una relazione sentimentale rischia di essere bollato come romance. Non è così per l’esordio di Elisabetta Carbone, che esplora la psicologia del legame tra Tamara, aspirante cantante lirica, e suo padre Giacomo, noto direttore d’orchestra, e tra Giacomo e Debora, sua vecchia compagna di università. Il rapporto fra i tre è forse segnato da una frase che Tamara riversa su Debora, quasi come una conseguenza: “Mio padre, di me e di Marta, non vuole sapere niente. La vita gliel’abbiamo guastata. Ti manda i fiori perché tu, a lui, la vita, gliela aggiusti, gliela rimetti insieme”. Tra genitorialità fallimentare, amore narcisista, idea di famiglia che trascende i vincoli di sangue, il ritmo del romanzo di Carbone procede come una pulsazione delle vene quando la superficie si lacera in una ferita. Il dolore – fisico, sentimentale, della malattia – è la traccia da seguire, a ritroso nei flashback, e avanti nel presente di tutti i giorni, per svelare l’intricata rete di segreti e non detti che uniscono le vite di queste tre figure. Un libro capace di dire moltissimo per sottrazione: l’autrice trattiene la trama e l’attenzione di chi legge. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1557 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati