All’inizio ci sono due sostantivi e due pronomi: lui e lei, il professore e il magiaro. Un vecchio maestro e tre allievi impegnati in un enigma tanto misterioso quanto eretico. Enrico Terrinoni è un anglista ed è anche traduttore delle opere di James Joyce, e nel suo esordio narrativo ne rievoca il fantasma in una città, Roma, in cui lo scrittore irlandese ha trascorso una breve parentesi, una manciata di mesi, tra il 1906 e il 1907. Dissemina le pagine di tracce, nella ricerca enigmatica dei protagonisti, con quella conoscenza intima che solo un traduttore può avere del proprio oggetto di ricerca. Cosa del soggiorno nella città eterna ha sconvolto Joyce? Cosa l’ha portato a comporre I morti, l’ultimo capitolo di Gente di Dublino? “È qui a Roma che maturò le sue paure. La paura dei fulmini e la cinofobia. E poi il terrore dell’acqua. Appena arrivato a Roma disse subito che il Tevere lo spaventava. Temeva anche la morte, ma quella un po’ meno. Forse perché ne aveva e ne avrebbe scritto, perché ci aveva coabitato a lungo”. Un romanzo magmatico e magnetico che, tra rimandi letterari, ordini religiosi e un panorama urbano con una lunga tradizione esoterica, seduce il lettore con il fascino del labirinto, di ciò che si trova al margine tra lo storico e l’immaginazione, tra la letteratura e il mito.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1565 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati