Di recente ho visto lo sketch di una comica statunitense che invitava a dismettere il calendario basato sulla nascita di un profeta, e sostituirlo con uno che parte da un avvenimento di impatto globale, per esempio la pandemia, prima e dopo, anche perché conserviamo una memoria distorta di quel che è successo in quei due (due?) anni. Paradiso terrestre (tradotto da Marta Olivi) è ambientato in una Florida surreale in un tempo strano, quello del lockdown, quando la ghostwriter di un famoso autore di thriller torna a vivere nella casa della sua infanzia: presente e passato aprono una linea diretta di comunicazione. La protagonista osserva come le finestre di casa si affaccino su un territorio inquietante, dove si aggirano eserciti di lucertole, cavallette fuori misura infestano i giardini, crateri enormi si aprono sotto i piedi, uragani e temporali sono così violenti da spostare gli oggetti. In questo spazio a metà tra l’assurdo e il reale, la donna si mette sulle tracce della sorella, scomparsa mentre usava un dispositivo di realtà immersiva. Van den Berg non sceglie una trama lineare, ma crea piuttosto un’atmosfera di straniamento, in un susseguirsi d’immagini e situazioni oniriche, tra virtuale e reale, pre e post-pandemia. È come guardare in un abisso e vedere se stessi in un momento storico che sappiamo di aver vissuto, ma che rimane comunque avvolto da un banco di nebbia. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1580 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati