È forse terribilmente appropriato che un’invasione cominciata vent’anni fa come un’operazione di controterrorismo si sia conclusa con un gravissimo attentato terroristico. Il tentativo della coalizione a guida statunitense di distruggere Al Qaeda e salvare l’Afghanistan dai taliban è stato indebolito dalla guerra in Iraq, che ha portato alla nascita del gruppo Stato islamico. Ora il cerchio si chiude con la nascita dell’Iskp, il ramo afgano dell’organizzazione, che minaccia di colpire gli Stati Uniti.

Le atrocità all’aeroporto di Kabul dimostrano quanto sia difficile interrompere il circolo vizioso della violenza e della vendetta. Il presidente statunitense Joe Biden si è impegnato a dare la caccia ai colpevoli e a “fargliela pagare”. Probabilmente significa che le forze speciali statunitensi molto presto entreranno di nuovo in azione in Afghanistan. Se il passato ha qualcosa da insegnare, si faranno errori, moriranno dei civili, alcune comunità locali saranno messe le une contro le altre. Risultato: altri terroristi.

Da lontano

È paradossale che i vertici dell’esercito statunitense a Kabul stessero collaborando con i taliban, i nemici giurati, contro il comune nemico dell’Is proprio mentre si concludeva l’evacuazione. Questo suggerisce che i negoziatori di entrambi gli schieramenti avrebbero potuto impegnarsi di più per raggiungere un accordo di pace attuabile. Potrebbe essere di buon auspicio per una collaborazione futura, per esempio sul fronte degli aiuti umanitari. Ma i taliban hanno innumerevoli facce, molte delle quali sono inaffidabili.

Gli eventi della scorsa settimana hanno sollevato altri interrogativi sulle decisioni di Biden. Sarà ritenuto personalmente responsabile del caos all’aeroporto. Si ritrova in una posizione spiacevole che fa venire in mente la caduta di un altro presidente statunitense del Partito democratico, Jimmy Carter. L’operazione Eagle claw, lanciata da Carter per salvare gli ostaggi statunitensi a Teheran nell’aprile del 1980, fu un fallimento, e pochi mesi dopo il presidente perse le elezioni.

Gli alleati europei della Nato sembrano non voler ammettere il cambiamento

Ora Biden deve affrontare le richieste di dimissioni dei repubblicani. La sua popolarità è in calo. Eppure, resta convinto che lasciare l’Afghanistan sia stata la cosa giusta da fare. I sondaggi mostrano che la maggioranza degli statunitensi è d’accordo con lui, anche se molti criticano il modo in cui l’operazione è stata gestita. A differenza di Carter, non deve affrontare elezioni imminenti. È probabile che quando si voterà per le presidenziali, nel 2024, il senso di angoscia e umiliazione sarà un lontano ricordo.

Il caos di Kabul solleva inoltre dubbi sulla nuova strategia di Biden nella lotta contro il terrorismo. La sua amministrazione sembra aver declassato la minaccia posta dal terrorismo islamico agli Stati Uniti. La squadra per la sicurezza nazionale vuole spostare priorità e risorse su altre sfide, dal contrasto alla Cina, al cyberterrorismo fino alla crisi climatica. Biden userà il ventesimo anniversario degli attacchi dell’11 settembre per dichiarare finite le “guerre perenni” degli Stati Uniti. Lasciandosi alle spalle il disastro afgano, ci si aspetta che dichiari conclusa l’era delle invasioni, delle occupazioni, della costruzione di nazioni e della “guerra globale al terrore”.

Il nuovo approccio al controterrorismo sarà meno ambizioso e più egoistico. Si concentrerà essenzialmente sulle minacce dirette contro la “patria” statunitense e non più contro il resto del mondo. La maggiore capacità di condurre operazioni da lontano (over the horizon) ridurrà la necessità di dispiegamenti e basi permanenti all’estero. È probabile che anche il Regno Unito adotterà un atteggiamento simile. “La linea statunitense dovrebbe concentrarsi sulla raccolta di informazioni, sull’addestramento di forze locali e sul mantenimento della potenza aerea oltre che della capacità delle forze speciali di colpire occasionalmente, se necessario”, hanno detto di recente gli analisti di politica estera Bruce Riedel e Michael O’Hanlon. Nessuno sa se una strategia così costosa e di difficile organizzazione funzionerà nel lungo periodo. Ma già da ora è possibile toccare con mano le conseguenze del cambiamento.

In Iraq, per esempio, le operazioni di combattimento statunitensi finiranno a dicembre. Circa 2.500 soldati resteranno nel paese con compiti di addestramento e consulenza. In Siria resterà un piccolo contingente di forze speciali. Comprensibilmente gli iracheni temono una nuova avanzata dello Stato islamico e un’implosione simile a quella vista in Afghanistan.

Da sapere
Intelligence alla prova

◆ Dopo gli attentati del 26 agosto 2021 all’aeroporto di Kabul, che hanno causato la morte di 183 persone (tra cui 13 soldati statunitensi), Washington ha lanciato degli attacchi aerei contro l’Iskp, il ramo afgano del gruppo Stato islamico. L’amministrazione Biden ha fatto capire che d’ora in poi farà sempre più spesso ricorso a operazioni di controterrorismo da lontano, chiamate over the horizon (oltre l’orizzonte). L’Economist spiega che questa strategia si basa sulla capacità di individuare le minacce attraverso l’analisi delle informazioni d’intelligence e di colpirle tempestivamente. “Il ritiro delle truppe statunitensi complica entrambi gli aspetti. Per prima cosa, non avendo più una presenza in Afghanistan, Washington farà molta fatica a capire la situazione sul campo. In secondo luogo, gli attacchi da lontano fanno aumentare il rischio di morti tra i civili”.


Biden si è già disinteressato del conflitto nello Yemen, dove l’Arabia Saudita ha combattuto una guerra inefficace e rovinosa contro i militanti houthi sostenuti dall’Iran. Sull’altra sponda del golfo di Aden, in Somalia, è ancora valida la decisione di Donald Trump di ritirare le truppe statunitensi. Dopo una recente serie di attentati dei terroristi di Al Shabaab, Washington ha lanciato alcuni attacchi aerei circoscritti, un possibile modello di intervento per il futuro.

In tutto il Medio Oriente si sente la stessa storia sul disimpegno e il ritiro degli Stati Uniti, intenzionati a concentrarsi sul fronte asiatico: aerei da combattimento vengono spostati in altre zone; gruppi da battaglia di portaerei potrebbero essere riassegnati alla regione del Pacifico; e da Iraq, Kuwait, Giordania e Arabia Saudita si ritirano batterie antimissile. Una parte rilevante di questi armamenti era puntata contro l’Iran, ritenuto uno dei principali sostenitori del terrorismo.

In Sahel, Africa occidentale, Repubblica Democratica del Congo e Mozambico gli Stati Uniti fanno solo atto di presenza nella lotta contro Boko haram e vari affiliati del gruppo Stato islamico e di Al Qaeda. Il comando degli Stati Uniti per l’Africa (Africom) ha il suo quartier generale a Stoccarda. Il presidente Muhammadu Buhari sostiene che senza l’aiuto americano la Nigeria potrebbe seguire la stessa stada dell’Afghanistan. “Alcuni hanno la sensazione che l’occidente stia perdendo la volontà di combattere”, ha detto.

Gli alleati di Washington dovranno abituarsi a un’era di autosufficienza e di maggiore incertezza. Se negli Stati Uniti gli attacchi dei terroristi islamici sono stati rari dopo l’11 settembre, in Europa sono morte diverse centinaia di persone. Nonostante questo, gli sforzi collettivi europei sul fronte dell’antiterrorismo spesso sono deboli sul piano militare. L’operazione Barkhane della Francia in Mali, poco supportata, è stata un’eccezione, ma si è conclusa quest’anno dopo aver subìto molte perdite senza aver ottenuto grandi risultati. Il caos in Afghanistan mostra che il terrorismo internazionale è ancora una minaccia. Con più di diecimila combattenti islamisti nel paese, secondo le stime delle Nazioni Unite, crescono i timori che il paese possa diventare ancora una volta una rampa di lancio per il jihad globale. Per questo la nuova strategia degli Stati Uniti dovrebbe preoccupare gli alleati che dipendono dalla loro leadership e dalla loro protezione. Gli alleati europei della Nato hanno puntato il dito contro Biden, dimostrando di non voler prendere atto della nuova situazione. Non vogliono ammettere che questo ritiro dall’Afghanistan è solo l’inizio di qualcosa di molto più grosso. E, come hanno dimostrato dolorosamente le vicende più recenti, il Regno Unito non è nemmeno lontanamente in grado di cavarsela da solo. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1425 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati