Due anni fa, dopo mesi di proteste violente che avevano portato alla caduta della dittatura trentennale di Omar al Bashir, il popolo sudanese aveva continuato a manifestare per chiedere un governo di transizione che traghettasse il paese verso la democrazia. La determinazione a evitare che la rivoluzione fosse presa in ostaggio dall’esercito era costata molte vite umane, e quando finalmente era stato raggiunto un fragile accordo tra militari e civili per organizzare elezioni libere nel 2023 i manifestanti si erano lasciati andare a esplosioni di gioia, scandendo lo slogan: “Civili! Civili! Civili!”.

Il 25 ottobre migliaia di persone sono tornate nelle strade della capitale Khartoum affrontando i proiettili della polizia per difendere la propria libertà. Tra i fumi delle barricate in fiamme e gli spari dei militari che poche ore prima avevano compiuto un colpo di stato, i sudanesi hanno ricominciato a gridare frasi come “Il popolo è più forte” e “Ritirarsi non è un’opzione”.

Il Sudan attraversa un momento critico. I rischi sono altissimi. La mattina del 25 ottobre le forze dell’esercito hanno dato il via al colpo di stato, arrestando l’attuale primo ministro Abdallah Hamdok insieme ad altri componenti del governo e alti funzionari, bloccando i principali ponti della capitale, oscurando internet, chiudendo l’aeroporto internazionale e assumendo il controllo della tv e della radio statali. Il generale Abdel Fattah al Burhan, già presidente del consiglio di transizione, si è imposto al centro della scena e ha annunciato la dissoluzione del governo, proclamando lo stato di emergenza. In tv Al Burhan ha dichiarato che le lotte politiche interne e le istigazioni alla violenza lo avevano costretto a infrangere gli accordi “per proteggere il paese” e “correggere il corso della rivoluzione”.

Le tensioni tra i civili e i militari sono cresciute esponenzialmente nelle ultime settimane, dopo che a settembre era fallito un precedente colpo di stato. Al centro dello scontro c’è la volontà delle forze armate di mantenere i loro privilegi in un sistema economico predatorio dove le élite militari hanno il controllo assoluto delle casse pubbliche e delle risorse. I movimenti civili che hanno cercato di contrastare questi privilegi si sono scontrati con l’ostilità dell’esercito. Negli ultimi mesi vari leader della società civile hanno denunciato la reticenza dei vertici militari a riformare le istituzioni e a rinunciare al loro dominio economico. Inoltre hanno criticato il costante rifiuto di indagare sulla corruzione all’interno del vecchio regime di Al Bashir e sui crimini, in cui sarebbero coinvolti alcuni comandanti ancora in carica, commessi dalle forze di sicurezza ai tempi del genocidio in Darfur e durante le proteste del 2019, represse con massacri.

Agli sgoccioli

Il tempo a disposizione dei militari stava per scadere. Come previsto dall’accordo del 2019, per i primi ventuno mesi a presiedere il consiglio di transizione è stato un militare, Al Burhan, che a novembre avrebbe dovuto cedere la leadership a un civile per i diciotto mesi in cui si sarebbero dovute organizzare le elezioni. Invece di passare il testimone, Al Burhan ha scelto il colpo di stato.

L’esercito ha dalla sua parte il monopolio della violenza, ma davanti a sé ha un popolo determinato, che negli ultimi anni ha dimostrato di non aver paura. Pochi minuti dopo il discorso di Al Burhan, con le strade pattugliate da veicoli militari e soldati armati, i leader politici ancora in libertà e l’Associazione dei professionisti sudanesi (la coalizione di attivisti che ha guidato le proteste contro al Bashir) hanno invitato la popolazione a mobilitarsi per difendere la transizione democratica. “Chiediamo a tutti di occupare le piazze, bloccare le strade con le barricate, aderire a uno sciopero generale ed evitare di collaborare con i golpisti, usando come arma la disobbedienza civile”, ha scritto l’associazione su Facebook. E così è stato.

Opinioni
Un salto nel buio per il generale

“Il generale Abdel Fattah al Burhan ha fatto un salto nel buio”, scrive sulla Bbc Alex de Waal, esperto del Corno d’Africa. “Ha danneggiato la nuova immagine internazionale del Sudan, che si presentava come una democrazia nascente; ha allontanato gli aiuti internazionali e le iniziative per l’alleggerimento del debito; ha messo in pericolo gli accordi di pace con i ribelli del Darfur e dei monti Nuba”. Il 25 ottobre il nuovo uomo forte del Sudan ha sciolto il consiglio di transizione, ha proclamato lo stato d’emergenza e ha assunto i pieni poteri. “Le sue intenzioni non erano un segreto per nessuno: è sempre stato impaziente con il primo ministro Abdallah Hamdok, facendo capire che secondo lui serviva qualcuno con più polso. I democratici sudanesi sapevano che i militari stavano tramando, e che probabilmente volevano ripetere quello che Abdel Fattah al Sisi aveva fatto in Egitto nel 2013”. Ma non sono riusciti a fermarli.

Nonostante la minaccia della repressione (un bilancio provvisorio delle vittime parla di almeno sette morti e 140 feriti), migliaia di sudanesi sono scesi in piazza nei giorni successivi al golpe e Khartoum è stata paralizzata da uno sciopero generale. Alcune associazioni della società civile hanno indetto per il 30 ottobre un’altra grande mobilitazione per dare vita alla “marcia del milione”. Secondo il quotidiano sudanese Al Taghreer, di orientamento democratico, “i vari colpi di stato della storia del Sudan hanno condotto a un fallimento politico ed economico, come testimoniano la povertà e il sottosviluppo del paese. Un governo golpista va quindi contro l’interesse dei sudanesi”. Anche a livello internazionale, tutti sono stati unanimi nel condannare il colpo di stato. Il 27 ottobre l’Unione africana ha sospeso il Sudan dall’organizzazione. Alcuni quotidiani della regione fanno notare, però, che al coro di voci non si è unito Israele, che con il Sudan ha raggiunto un accordo di normalizzazione grazie alla mediazione degli Stati Uniti di Donald Trump. ◆


In una delle barricate, il manifestante Haitham Mohamed ha riassunto con queste parole il sentimento di migliaia di sudanesi: “Siamo pronti a morire per la transizione democratica”.

Da sapere
Settant’anni irrequieti
Paesi africani con più colpi di stato dal 1952 (Fonte: La Vanguardia)

La comunità internazionale ha reagito subito. Volker Perthes, rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Sudan, ha definito “inaccettabile” il proclama dei militari e preteso “l’immediata scarcerazione” dei politici arrestati (Hamdok e la moglie sono stati riportati a casa il 26 ottobre). La Lega araba, l’Unione africana e l’Unione europea hanno chiesto il ritorno al processo di transizione. Gli Stati Uniti, il cui rappresentante nel paese aveva incontrato nel fine settimana a Khartoum i leader della coalizione di governo, hanno sospeso 700 milioni di dollari di aiuti al Sudan, colpito da una crisi economica e da un’inflazione (stimata al 365 per cento) insostenibile per la popolazione.

Non sappiamo cosa succederà dopo il golpe. Ma gli eventi degli ultimi giorni indicano che il Sudan è il paese più instabile dell’Africa (diciassette colpi di stato dall’indipendenza). In realtà tutto il continente sta assistendo a una deriva preoccupante dopo che all’inizio di questo secolo avevamo assistito a una fase di relativa stabilità, con due golpe all’anno e meno di un terzo di probabilità di successo. Dal 1960 alla fine degli anni novanta la media era stata di quattro all’anno, efficaci nel 60 per cento dei casi. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1433 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati