Questo articolo è stato pubblicato il 4 marzo 2016 nel numero 1143 di Internazionale.

Sono arrivato a Tirana una domenica sera di fine agosto con un aereo da Istanbul. Il sole era tramontato mentre eravamo a metà del volo, e quando siamo atterrati nel buio avevo ancora negli occhi le immagini del cielo che si scoloriva. L’uomo seduto accanto a me, un giovane americano dai capelli rossi con un cappello di paglia, mi ha chiesto se sapevo come arrivare in città dall’aeroporto. Ho scosso la testa, ho riposto nello zaino il libro che stavo leggendo, mi sono alzato, ho preso la valigia dalla cappelliera e sono rimasto in piedi nel corridoio in attesa che aprissero il portellone.

Il libro era il motivo per cui ero lì. S’intitolava Do no harm (Non fare male) e l’autore era un neurochirurgo britannico di nome Henry Marsh. Marsh è specializzato nelle operazioni al cervello, la struttura più complessa che conosciamo in tutto l’universo, quella che contiene tutto ciò che ci rende umani, e il contrasto tra l’estremamente complicato e l’estremamente primitivo – tutto quel lavoro con bisturi, trapani e seghetti – mi affascinava enormemente.

Avevo mandato un’email a Marsh, chiedendogli se potevo andarlo a trovare a Londra per vederlo operare. Mi aveva risposto molto gentilmente che ormai non lavorava quasi più lì, ma era sicuro che si sarebbe potuto organizzare qualcosa. Aveva anche accennato al fatto che nel mese di agosto avrebbe operato in Albania e a settembre in Nepal, e gli avevo chiesto esitando se potevo raggiungerlo in Albania.

Adesso ero lì. Teso e preoccupato, sono sceso dall’aereo senza avere la più pallida idea di cosa mi aspettasse. Dell’Albania sapevo ben poco, come della chirurgia cerebrale. L’aria era calda e stagnante, l’oscurità fitta. Un autobus ci aspettava con il motore acceso. La maggior parte dei passeggeri non parlava, e i pochi che chiacchieravano tra loro lo facevano in una lingua che non conoscevo. Mi è venuto in mente che venticinque anni fa, quando questo era uno degli ultimi paesi comunisti rimasti in Europa, non mi avrebbero permesso di entrare. All’epoca era chiuso al mondo esterno, quasi come lo è oggi la Corea del Nord. Stavolta l’impiegata dell’ufficio immigrazione aveva dato un’occhiata distratta al mio passaporto prima di timbrarlo, me lo aveva pigramente restituito ed ero entrato in Albania.

Agli arrivi, mi si è avvicinato un giovane in camicia bianca. “Benvenuto in Albania, signor Knausgård. Mi chiamo Geldon Fejzo. Il signor Marsh e il professor Petrela l’aspettano in albergo. La macchina è qui fuori”. L’automobile era una Mercedes nera con i sedili di pelle e l’aria condizionata. Fejzo si è appena specializzato in neurochirurgia. Ha 31 anni e ha studiato a Firenze. Ha anche fatto uno stage di qualche mese in un ospedale di Londra con il signor Marsh. Lo chiama così, solo “signor”, come preferiscono da sempre essere chiamati i chirurghi britannici.

“Che tipo è?”, gli ho chiesto.
“Il signor Marsh?”.
Ho fatto cenno di sì.
“È una persona fantastica”, ha risposto.

Marsh era a Tirana per dare una dimostrazione di una procedura chirurgica della quale era stato uno dei pionieri, la craniotomia da svegli, che in Albania non era stata ancora sperimentata. È una procedura che si usa per asportare un tipo di tumore al cervello il cui aspetto è quasi indistinguibile da quello del resto della materia grigia. Tumori simili sono più comuni tra i giovani, e sono incurabili. Senza un intervento chirurgico, il 50 per cento dei pazienti muore entro cinque anni e l’80 per cento entro dieci. Un’operazione può prolungargli la vita di dieci o vent’anni, a volte anche di più.

Perché il chirurgo possa distinguere tra il tumore e il tessuto cerebrale sano, il paziente viene tenuto sveglio nel corso di tutta l’operazione, durante la quale il cervello è stimolato elettricamente per permettere al chirurgo di vedere se e come il paziente reagisce. L’équipe albanese si stava preparando da sei mesi e aveva scelto due casi che sembravano particolarmente adatti per la dimostrazione.
Ho appoggiato la schiena al sedile e ho guardato fuori nel buio, che ci circondava completamente, come se fossimo in piena campagna, e poi a poco a poco veniva interrotto dalle luci delle case, dei negozi e dei semafori agli incroci.

Il neurochirurgo ha sempre la tentazione di asportare l’intero tumore, ma se va troppo oltre le conseguenze possono essere gravissime

Come sempre mi succede quando viaggio in macchina verso una grande città, mi è venuta in mente una poesia dello svedese Tomas Tranströmer, che ormai era diventata quasi un pensiero compulsivo: “I funerali continuano ad arrivare / sempre più numerosi / come i cartelli stradali / mentre ci avviciniamo alla città”, aveva scritto verso la fine della sua vita. E poi ho pensato a una citazione del medico francese René Leriche che Marsh ha riportato nel suo libro, e che comincia così: “Ogni chirurgo porta dentro di sé un piccolo cimitero”.

Ci siamo fermati a un semaforo rosso. Davanti a noi c’era una grande piazza.
“Quello è il museo nazionale”, ha detto Fejzo, indicandomi un edificio imponente sulla sinistra. “Lo hanno costruito i cinesi durante l’era comunista. E lì, dall’altro lato, c’è il teatro dell’opera. Lo hanno costruito i sovietici”.

Ho appoggiato la testa al finestrino e ho guardato un gigantesco mosaico che rappresentava varie persone in pose eroiche. Ho sentito un brivido lungo la schiena. Se c’è una cosa per cui ho un debole è l’era comunista, con la sua cultura della segretezza, l’eroismo proletario, la celebrazione dell’industria, l’architettura massiccia, i film di Tarkovskij, i cosmonauti e le eccezionali squadre di hockey sul ghiaccio. Non so perché mi affascina, dato che in realtà sono contrario a tutto quello che rappresenta: il culto della collettività, l’industrializzazione della vita quotidiana, l’estetica monumentale. Preferisco la goffaggine umana e l’improvvisazione. Ma c’è qualcosa nell’aura dell’era sovietica che mi attrae, a volte quasi con una forza selvaggia.

L’automobile ha accostato e si è fermata davanti all’albergo. Seduto intorno a un tavolo davanti all’ingresso c’era un gruppo di persone, che mentre ci avvicinavamo si sono alzate. Ho riconosciuto Henry Marsh dalla foto sul libro, e da un documentario che avevo visto. “Ah, è arrivato il famoso scrittore”, ha detto. Era più basso di quanto mi aspettassi, ma il suo corpo mi ha dato subito l’impressione di essere elastico e robusto: i movimenti lasciavano leggermente trasparire l’età, mentre i suoi occhi, dalle palpebre basse, apparivano al tempo stesso vivaci e tristi. La sua stretta di mano era energica e ho lanciato con discrezione un’occhiata alle sue mani, muscolose e massicce come quelle di un artigiano.

Fejzo mi ha presentato agli altri: Paolo Pellegrin, il fotografo che avrebbe ripreso la procedura, un uomo alto sulla cinquantina con i capelli ricci e gli occhiali; il suo bellissimo giovane assistente, Alessio Cupelli, che aveva coperto i lunghi capelli scuri con una bandana; e Mentor Petrela, che dirige il reparto di neurochirurgia dell’ospedale di Tirana, un uomo sui 65 anni, elegante, sorridente e con gli occhi pieni di calore.

“Abbiamo prenotato un tavolo in un ristorante qui vicino”, ha detto Petrela. “Viene con noi?”.

Arrivati al ristorante, quando ci siamo seduti all’aperto su una piccola terrazza cominciava a risuonare l’invito alla preghiera. Mentre Fejzo confabulava con il cameriere e Marsh e Pellegrin riprendevano la conversazione interrotta, sono rimasto ad ascoltare la strana voce del muezzin che saliva e scendeva nella notte. Non capivo le parole, ma il loro suono riempiva l’aria di mestizia e di umiltà. L’uomo è una piccola cosa, la vita è grande, era il messaggio che mi trasmetteva il suono di quella voce. Pellegrin si è tolto gli occhiali, si è strofinato gli occhi, poi se li è rimessi e ha rivolto lo sguardo verso di me.

“Stavamo parlando di un problema che ho agli occhi”, ha detto. “La mia vista si sta abbassando sempre di più”.
“Si chiede se non sia proprio questo che lo spinge ad andare avanti”, ha detto Marsh. “Sapere che come fotografo ha il tempo contato”.
“Lei è un fotografo di guerra, vero?”, gli ho chiesto.
“Sì, anche”, ha detto Pellegrin.
“Vede qualche somiglianza con il suo lavoro?”, ho chiesto rivolgendomi a Marsh. “In fondo anche la chirurgia cerebrale è una questione di vita o di morte, no?”.
“No, no, niente affatto”, ha risposto lui. “Un neurochirurgo non rischia niente a livello personale. Io sono un vigliacco. Sono pieno di ansie”.

I camerieri, tutti ragazzi dai capelli a spazzola, sono arrivati con gli antipasti, e presto la tavola bianca, sulla quale fino a quel momento spiccava solo il verde pallido dell’olio d’oliva nelle sue bottiglie trasparenti, si è riempita di pomodori rosso scuro, insalata verde, polpo bluastro affettato per mettere in mostra la carne di un bianco abbagliante, gamberetti rosa, grosse fette di prosciutto brunastro, fettine di pane beige con la crosta scura, quasi nera.

Per tutta la cena, è stato Marsh a portare avanti la conversazione. Ci ha spiegato come funzionava la craniotomia da svegli. Il neurochirurgo ha sempre la tentazione di provare ad asportare l’intero tumore, ma sa che se va troppo oltre, se toglie troppo, le conseguenze possono essere gravissime. Può provocare la paralisi totale o parziale di un lato del corpo o altri danni funzionali, perfino cambiamenti della personalità. Se il paziente è sveglio, il chirurgo può non solo stabilire il limite da non superare, ma anche osservare le conseguenze della procedura direttamente e immediatamente, per potersi fermare prima di provocare danni seri.

Per aprire il cranio veniva usato un trapano Bosch come quelli che si comprano dal ferramenta

Marsh si esprimeva bene, era informato e divertente. Parlava della situazione politica nello Zimbabwe o dei libri dello scrittore tedesco W.G. Sebald, che adora, con la stessa facilità con cui parlava delle varie zone del cervello. Allo stesso tempo, avevo l’impressione che dentro di lui stesse succedendo qualcosa che non aveva niente a che vedere con la conversazione del momento. Quando qualcuno diceva qualcosa, a volte esclamava: “Esattamente”, ed elaborava il concetto, ma altre volte era molto silenzioso, come se fosse rimasto isolato dal mondo e ripiegato su se stesso. Ed era proprio lì che non voleva essere, mi è venuto in mente mentre chiacchieravamo intorno a quel tavolo, sotto la forte luce delle lampade da soffitto, con i bicchieri che scintillavano e il bagliore della tovaglia bianca reso ancora più intenso dall’oscurità impenetrabile dietro le piante verdi che coprivano il muro della terrazza.

Prima di decidere di diventare un chirurgo, Marsh aveva studiato filosofia, economia e politica all’università di Oxford, dove aveva cominciato a interessarsi dell’Unione Sovietica. Dopo la fine della guerra fredda era andato spesso a lavorare gratuitamente in un reparto di neurochirurgia di Kiev, in cui le condizioni erano spaventosamente primitive. Nel documentario del 2007 sul suo lavoro in Ucraina, intitolato Il chirurgo inglese, si vedono alcune operazioni eseguite in modo incredibilmente brutale. In una di queste, per aprire il cranio veniva usato un trapano Bosch come quelli che si comprano dal ferramenta. In un’altra, una sega a filo che faceva volare polvere e schizzare sangue. Marsh mandava apparecchiature mediche ai chirurghi e una volta era andato lì con la sua auto carica di strumenti. Sette anni prima, aveva operato la futura ambasciatrice britannica in Albania. Avevano fatto amicizia e lei gli aveva presentato Petrela.

“Siamo diventati subito amici”, ha detto Petrela mentre Marsh raccontava questa storia. “Immediatamente! Henry Marsh è un medico onesto. Il suo libro è tutto sull’onestà. La verità. È molto importante, la verità”.
“È per via di suo figlio che si è specializzato in neurochirurgia?”, ho chiesto, mentre mi scostavo per permettere al cameriere di mettermi l’insalata nel piatto con una pinza.
Marsh ha socchiuso gli occhi, e gli angoli della sua bocca si sono piegati in una smorfia, mentre allargava le braccia come a dire che gli avevano fatto tante volte quella domanda, e che poteva sembrare così, ma probabilmente non era per quello.
“È difficile capirlo”, ha detto. “Forse in parte sì. Ma non consapevolmente. Comunque, non c’è dubbio che ha fatto di me un medico migliore”.

Quando Marsh aveva appena cominciato a lavorare in ospedale, suo figlio di pochi mesi fu sottoposto a un intervento per asportare un tumore al cervello. Nel suo libro Marsh racconta la disperazione e la totale impotenza che provò mentre aspettava l’esito dell’operazione, finché non seppe chiaramente che era andata bene. “Il mio lavoro mi serve solo per sopravvivere”, ha detto. “Forse è per questo che lo faccio da tanti anni. È solo un modo per tenere il lupo lontano dalla porta”.

La mattina dopo, quando è suonata la sveglia del mio cellulare, avevo un vago ricordo di essere stato preso dal panico durante la notte, di essermi alzato all’improvviso dal letto perché non mi ricordavo dov’erano i bambini. Dove sono i bambini, dove sono i bambini, avevo pensato, e li avevo cercati in bagno, in balcone, sul pavimento vicino al letto. Ma non c’erano. Dov’erano i bambini? Alla fine mi sono reso conto che avevo camminato nel sonno, ma ancora non riuscivo a capire dov’ero o dov’erano i bambini. Li avevo perduti? Poi mi sono ricordato dov’ero ed è stato come se fossi diventato una cosa sola con la stanza in cui mi trovavo. A quel punto tutto aveva un senso e, sollevato, mi sono rimesso a dormire.

Ho fatto una doccia veloce, mi sono vestito e sono andato alla reception dell’albergo. Marsh, Pellegrin, Cupelli e Fejzo erano già lì e c’erano due macchine che ci aspettavano per portarci all’ospedale. Mi è sembrato di attraversare una città diversa. Tutto quello che la sera prima appariva cupo e misterioso ora era inondato di luce e completamente spogliato del suo mistero. Abbiamo risalito un fiume con le banchine di cemento passando davanti a file e file di case di mattoni, molte delle quali fatiscenti, piene di botteghe e piccoli caffè. Le montagne alle spalle della città, che notavo solo allora, erano alte e leggermente velate dalla foschia, ma erano comunque una macchia verde contro il cielo azzurro senza nubi, sembravano incorniciare la città e darle il suo particolare carattere. Se ne stavano lì come testimoni immobili della lotta umana contro l’entropia, esattamente com’erano quando nel quarto secolo questa terra faceva parte dell’impero romano o nel diciassettesimo di quello ottomano.

Le macchine hanno rallentato e si sono fermate davanti all’ospedale, un edificio in cemento semplice e funzionale, con angoli netti e superfici piane che contrastavano con le persone sullo spiazzo, in piedi o sedute alla luce del sole con i loro corpi morbidi avvolti in abiti a fiori o in giacche e pantaloni non molto diversi, ho pensato, da quelli che portavano i miei genitori negli anni cinquanta e sessanta. Petrela ci aspettava al reparto di neurochirurgia con un camice immacolato e con un ampio sorriso.

“Benvenuti amici miei”, ha detto. “Se volete, potete lasciare le vostre cose nel mio studio. E poi vi mostrerò le sale operatorie”. Ci ha fatto indossare camici, cuffie e mascherine e ci ha portato al secondo piano dove, attraverso un piccolo labirinto di corridoi, abbiamo raggiunto la sala operatoria. Con mio grande orrore, era già in corso un intervento. C’era un silenzio assoluto. Tutta l’attenzione era concentrata su una testa tenuta ferma da una morsa al centro della stanza. La parte superiore del cranio era stata rimossa e i bordi coperti con vari strati di garza, completamente inzuppati di sangue, che andavano a formare un imbuto verso l’interno della testa. Il cervello pulsava come un piccolo animale in una grotta. O come una cozza aperta.

Due medici chini sulla testa inserivano ed estraevano degli strumenti lunghi e stretti nell’apertura. Un’infermiera li assisteva e un’altra li osservava da pochi metri di distanza. Da uno degli strumenti usciva un gorgoglìo simile a quello dell’apparecchio che usano i dentisti per aspirare la saliva dalla bocca dei pazienti. Vicino a noi c’era un monitor che mostrava un’immagine ingrandita del cervello. Al centro era stato scavato un piccolo pozzo. E al centro del pozzo c’era un cubo bianco che sembrava fatto di una sostanza più solida, era gommoso e somigliava alla carne di un polpo. Ho capito che doveva essere il tumore.

Non avevo mai visto nulla di così bello e, quando ho lasciato il posto al chirurgo, i miei occhi si sono velati di lacrime

Un medico ha alzato gli occhi da un microscopio sospeso sul cervello e si è girato verso di me. Vedevo solo i suoi occhi sopra la mascherina. Erano piccoli e volpini.
“Vuole guardare?”, mi ha chiesto.
Ho fatto cenno di sì.
Si è spostato e io mi sono chinato sul microscopio.

Oh, mio dio. Davanti a me si è aperto un intero panorama. Avevo la sensazione di essere in cima a una montagna e di guardare una pianura coperta da lunghi fiumi serpeggianti. All’orizzonte sorgevano alte montagne e tra loro c’erano delle valli, una delle quali era coperta da un enorme ghiacciaio bianco. Tutto brillava e scintillava. Era come se fossi stato trasportato in un altro mondo, in un’altra parte dell’universo. Uno dei fiumi era violaceo, gli altri erano rosso scuro, e il paesaggio che attraversavano era pieno di colori insoliti e strani.

Ma era soprattutto il ghiacciaio ad attirare la mia attenzione. Era come un altopiano sopra una vallata, di un bianco intenso come la neve sulle montagne in un giorno di sole. Improvvisamente si è levata un’onda rossa che è andata a infrangersi sulla superficie bianca. Non avevo mai visto nulla di così bello e, quando mi sono raddrizzato per farmi da parte e lasciare il posto al chirurgo, per un attimo i miei occhi si sono velati di lacrime.

Nel cortile dell’ospedale l’aria era piena di voci, del rombo dei motori, dell’acuto frinire delle cicale. Le persone lì fuori, sedute o in piedi, intente a chiacchierare fittamente, o appartate e silenziose, erano i parenti dei pazienti, che passavano le giornate lì per stare vicino ai loro cari, mi aveva detto Fejzo.

Ho sollevato lo sguardo verso l’ultimo piano di quell’ala dell’ospedale. Era difficile immaginare che quella stanza silenziosa, con il suo leggero ronzio e le sue isole di alta tecnologia, fosse solo a pochi metri di distanza da quella confusione. E ancora più difficile era pensare che in quella stanza ci fosse una finestra aperta su un’altra stanza, il cervello umano.

Lo avevo visto sul serio? Ho sentito un improvviso, acuto senso di colpa. Quel cervello faceva parte di un essere umano con una specifica personalità, ma io ci avevo guardato dentro e lo avevo visto come se fosse stato un luogo. Sono rientrato e ho trovato Petrela e Marsh seduti nello studio che bevevano caffè e chiacchieravano.

“È pronto a incontrare il primo paziente?”, mi ha chiesto Marsh.
Ho fatto cenno di sì.
Marsh parla sempre con i pazienti prima e dopo l’operazione, e ha ripetuto diverse volte che quella è la parte più difficile del suo lavoro. Deve dirgli la verità, ma al tempo stesso non togliergli la speranza.
“Potete incontrarlo nel mio studio”, ha detto Petrela.

Ho seguito Marsh nella stanza accanto e ci siamo seduti alla scrivania di Petrela. Poco dopo hanno bussato alla porta. Il paziente, un uomo piccolo e robusto con il viso giovane e forte, e Florian Dashi, il neurologo che avrebbe parlato con lui durante l’operazione, sono entrati insieme. Il paziente sorrideva e i suoi movimenti erano sicuri, ma negli occhi gli si leggeva la preoccupazione, e forse anche la paura.

Si chiamava Ilmi Hasanaj. Aveva 33 anni e faceva il muratore a Tirana. Viveva alla periferia della città ed era sposato, ma non aveva figli. Stava lavorando in cantiere, ha raccontato, sul tetto di un palazzo. A metà giornata era andato a prendere qualcosa in magazzino e il braccio e la gamba sinistra avevano cominciato a tremargli in modo incontrollabile. Anche la bocca e l’occhio sinistro si muovevano in modo incontrollabile. Era riuscito a sedersi su una sedia. Alcuni colleghi si erano resi conto che era qualcosa di grave e lo avevano portato in ospedale.

“Cosa ha pensato che le stesse succedendo?”, gli ho chiesto.
“Ho pensato che forse ero solo stanco e stressato”, ha detto. “Negli ultimi tempi avevo lavorato molto”.
C’è stato un momento di pausa.
“Ha paura dell’operazione?”, ho chiesto.
Ha annuito prima ancora che Dashi gli traducesse la domanda.
“Sì”.
Marsh si è sporto in avanti.
“Ho fatto più di 400 di questi interventi”, ha detto. “Di solito i miei pazienti inglesi reggono bene. E ho idea che gli albanesi siano molto più tosti degli inglesi. Sono sicuro che se la caveranno benissimo”.
Quando gliel’hanno tradotto, Hasanaj ha sorriso.

“Non è doloroso”, ha detto Marsh. “Facciamo l’operazione in questo modo perché è meno rischioso. Prima toccheremo il suo cervello con un piccolo strumento elettrico che ho portato con me da Londra e, quando arriveremo alla zona che controlla i movimenti, la faremo muovere. Così sapremo dov’è esattamente. Nella seconda parte dell’intervento, mentre asportiamo il tumore, le chiederemo di muovere un piede, un ginocchio, un fianco, le dita, per vedere se è sempre in grado di farlo. E se, mentre stiamo asportando il tumore, comincerà a sentirsi un po’ debole, capiremo che è arrivato il momento di fermarci. È possibile che dopo l’intervento il lato sinistro rimanga un po’ indebolito, ma quasi certamente con il tempo migliorerà. La percentuale di rischio che resti completamente paralizzato non è zero, ma è molto bassa, meno dell’uno per cento. Spero che riusciremo a rimuovere tutto il tumore, ma forse non potremo farlo, e nei prossimi anni dovrà continuare a sottoporsi a dei controlli. Se non ci saranno problemi dopo l’operazione, spero che possa tornare a lavorare entro cinque o sei settimane”.

Mentor Petrela e Artur Xhumari operano Ilmi Hasanaj. Sullo sfondo Karl Ove Knausgård. Tirana, 25 agosto 2015. (Paolo Pellegrin, Magnum/Contrasto)

Ho rivisto Hasanaj nel tardo pomeriggio, era in anestesia generale steso sotto un lenzuolo, si vedeva solo la testa bloccata da una morsa di metallo. Era stata parzialmente rasata in preparazione dell’apertura del cranio. L’asportazione del tumore sarebbe avvenuta il giorno dopo. Spesso Marsh concentrava entrambe le fasi in un solo giorno, ma in quel caso l’operazione si sarebbe svolta in due giorni consecutivi, soprattutto perché per l’ospedale la procedura era nuova. Petrela e il suo assistente, Artur Xhumari, l’uomo dagli occhi volpini, erano chini sul paziente. Petrela muoveva intorno alla testa un piccolo apparecchio per la mappatura del cervello e guardava il monitor. Le immagini sullo schermo cambiavano ogni volta che spostava l’apparecchio, come quelle delle ecografie dei miei figli che avevo visto quando erano ancora nella pancia di mia moglie.

Petrela e Xhumari confabulavano a bassa voce e ho immaginato che stessero decidendo dove aprire il cranio. Poi Xhumari ha appoggiato il bisturi cinque centimetri sopra l’orecchio e lo ha premuto a fondo per incidere la pelle. Dalla ferita è uscito un fiotto di sangue che colava lungo il lato della testa. Xhumari ha tracciato un semicerchio con il bisturi intorno alla calotta cranica. Intanto Petrela aspirava il sangue. Poi, Xhumari ha inserito uno strumento piatto nell’incisione e ha ripiegato la pelle con tutta la carne che c’era sotto e i tendini che la tenevano attaccata al cranio. Centimetro per centimetro, il cuoio capelluto si è staccato dall’osso. In parte Xhumari lo ha tagliato e in parte lo ha spinto indietro per staccarlo da quello che c’era sotto, mentre contemporaneamente lo tirava dall’alto, come se stesse sbucciando un frutto acerbo la cui buccia era ancora attaccata alla polpa. Quando ha finito questa operazione, ha ripiegato lo scalpo da un lato e lo ha subito coperto con tamponi di garza, che si sono immediatamente imbevuti di sangue.

Il cranio denudato era bianco-giallastro, con sottili strisce di sangue che colavano in tutte le direzioni. Xhumari ha tirato fuori uno strumento di metallo lucido che aveva la forma di una bacchetta o di un grosso saldatore con una punta a una delle estremità. Ha appoggiato la punta sulla calotta e ha cominciato a trapanare. Nella sala operatoria si è diffuso un basso ronzio. Intorno alla punta si è formato un mucchietto di polvere d’osso mentre il sangue colava lungo il cranio. Quando il trapano ha perforato l’osso, Xhumari si è fermato. Il risultato sembrava un buco fatto in un mobile di plastica per infilare una vite. Xhumari ha fatto altri due buchi simili. Poi ha preso un altro strumento, anche quello di metallo lucido, e ne ha inserito la punta nel primo buco. Ho immaginato che fosse un seghetto. Anche quello ronzava e il rumore sembrava aumentare man mano che incideva. Xhumari l’ha trascinato lentamente verso il secondo buco, mentre Petrela aspirava il sangue e la polvere d’osso. Lentamente si è formata una sottile crepa, come quando si spacca il ghiaccio. Quando il seghetto ha completato il giro e ha raggiunto il primo buco dal lato opposto, Petrela ha sollevato la parte superiore del cranio come un coperchio e l’ha alzata in aria davanti a me.

“Tutti i neurochirurghi a un certo punto della loro carriera la fanno cadere”, ha detto ridendo, e ha passato quel coperchio sanguinolento all’infermiera, che lo ha messo su un vassoio e lo ha coperto con un foglio di plastica verde.
Sotto il cranio aperto c’era una membrana umida color sangue.
“Questa è la dura mater”, ha detto Petrela. “La parte più esterna delle meningi”.
Xhumari l’ha tagliata con un paio di forbici e l’ha ripiegata. Sotto era bianca e sembrava un panno bagnato. L’ha tirata delicatamente indietro per lasciare scoperto il cervello. Pulsava lentamente e alla luce intensa delle lampade sembrava bluastra.
“Adesso ricuciamo”, ha detto Petrela. “E siamo tutti pronti per l’operazione di domani.

Hanno ripetuto l’intero processo al contrario. Hanno ricucito le meningi e l’infermiera ha porto a Xhumari il coperchio della scatola cranica. Quando lo ha reinserito, è colato fuori un po’ di sangue, come se avesse messo un coperchio su una tazza piena di un denso succo di mirtilli. Hanno fissato la calotta con graffe di metallo e poi hanno ricucito il cuoio capelluto. Non mi è passato per la mente neanche per un momento che quella che stavano tagliando era la testa di Hasanaj.

Marsh irradiava la stessa energia inquieta, concentrata e leggermente ansiosa di un attore che si preparava a entrare in scena

Quella sera Petrela ci ha invitati a cena nel suo appartamento. La sua famiglia possedeva un palazzetto nel centro della città, proprio sopra la moschea principale. I suoi antenati erano stati politici e uomini d’affari, il suo bisnonno era prefetto di Tirana quando la città si era arresa all’esercito dell’impero austroungarico durante la prima guerra mondiale. Suo nonno commerciava in olio d’oliva ed era diventato molto ricco, era stato lui a far costruire il palazzo nel 1924.

Quando dopo la seconda guerra mondiale salirono al potere i comunisti, la famiglia perse la casa, gli fu confiscata come tutte quelle dei borghesi. Suo padre, che era un professore universitario, fu costretto a insegnare nella scuola elementare di un paesino tra le montagne molto lontano da Tirana, mi ha raccontato Petrela al crepuscolo mentre eravamo sulla terrazza che correva tutto intorno all’appartamento. Quando parlava del padre la sua voce era carica di dolore.

“Mi diceva sempre che prima di uscire dovevamo indossare una maschera”, ha detto fingendo di mettersi una maschera sul viso e facendo il gesto di chiudersi le labbra con una lampo. “Poi quando ci richiudevamo la porta di casa alle spalle ce la toglievamo. Ho una maschera appesa sulla parete dell’ingresso per ricordarmelo”.

Ha riso. Mi ha colpito il fatto che fosse ancora prima di tutto un figlio, forse quello era proprio il motivo del suo fascino, per certi versi fanciullesco, gioioso, vulnerabile. Ma al tempo stesso sentivo che c’erano molte cose che non capivo. Avevo notato che la sua parola era legge per gli altri dipendenti dell’ospedale, e per poter operare a un livello che Marsh definiva “all’avanguardia” nel reparto di neurochirurgia di Tirana, che per altri versi era povero e privo di risorse, di sicuro non bastava essere affabili.

Poi, lì nella penombra, sotto le stelle, con i rumori che salivano dalla città, Petrela ha raccontato una storia a proposito del suo ex primario: rimuoveva certi tipi di tumori cerebrali con l’indice, senza usare nessuno strumento, infilava il dito nel cervello e – plop! – tirava fuori il tumore. Petrela ce ne ha dato una dimostrazione: ha alzato il lungo indice nell’aria, lo ha piegato a uncino e ha finto di strappare qualcosa ridendo. Mentre lo faceva, ho capito che mi sarei ricordato quel gesto per tutta la vita.

La cena ci è stata servita in una sala da pranzo due piani più sotto, che era ancora arredata come doveva esserlo stata negli anni venti. Il pavimento e il soffitto erano di legno scuro e le pareti coperte di dipinti, una lunga pistola antica era appoggiata su una cassapanca rustica e appeso in un angolo c’era un vestito bianco come quello che, ci ha detto Petrela, indossava sua nonna quando si era sposata. Era una stanza profondamente romantica.

Solo quando siamo stati tutti seduti intorno al tavolo, coperto da una tovaglia bianca, rigida e formale ma bellissima, e apparecchiato con porcellane e cristalli, mi è tornato in mente quello che avevo visto qualche ora prima: il trapano che penetrava nel cranio di Hasanaj millimetro per millimetro, la calotta che Petrela aveva rimosso. Ora Hasanaj doveva essere sveglio, ho pensato. Era steso sul suo letto d’ospedale, con uno strano dolore alla testa e il pensiero che il giorno dopo sarebbe rimasto sveglio mentre due medici – quelli che adesso erano seduti lì e mangiavano, bevevano, parlavano e ridevano – frugavano nel suo cervello.

Ancora una volta, era Marsh a condurre la conversazione, nel suo tipico modo inglese, affascinante e pieno di humour. La mia impressione, dopo aver passato un giorno e una sera in sua compagnia, era che fosse una persona con una straordinaria fisicità e manualità. Andava in bicicletta ovunque, lavorava il legno e nel suo giardino londinese allevava api. Ci ha raccontato di aver appena comprato il cottage di un guardiano delle chiuse sul fiume a Oxford. Il proprietario precedente purtroppo era morto in solitudine e tra i rifiuti. Marsh avrebbe restaurato il cottage da solo. Sembrava che il suo stile di vita consistesse nel non stare mai fermo, nel riempirsi le giornate di cose da fare, come durante la cena riempiva il tempo con cose da dire.

Nel complesso era rassicurante stare in sua compagnia, perché si prendeva carico della conversazione in modo molto piacevole, ma al tempo stesso si provava un pizzico d’insicurezza perché, nell’ampia gamma di argomenti che toccava, ogni tanto traspariva un’ombra di narcisismo, ben camuffata, ma non abbastanza da impedirmi di notare che per lui era importante farci saper che sua moglie era bella e intelligente, che il suo libro aveva ottenuto critiche positive, che David Cameron, per esempio, lo aveva letto e a quanto sembra si era commosso fino alle lacrime.

Quando abbiamo parlato di automobili, la storia che ha scelto di raccontare è stata quella della sua vecchia Saab, che intendeva guidare fino alla morte e che una volta aveva usato per andare dalla regina, e quanto appariva misera e malconcia rispetto alle altre macchine. Era il tipo di cosa che avrei potuto dire anch’io, vergognandomene poi per mesi. Era uno dei miei problemi principali, sentivo anch’io la necessità di mettermi in buona luce accennando con nonchalance a qualcosa d’importante che mi era successa, di modo che gli altri capissero che non ero il solito norvegese noioso e taciturno. Era un bisogno quasi compulsivo.

Era mai possibile che un brillante neurochirurgo come Marsh avesse quel costante bisogno di richiamare l’attenzione su di sé? Le sue straordinarie qualità, evidenti agli occhi di tutti quelli che lo circondavano, non erano già indelebili nell’immagine che aveva di se stesso? Ho ripensato a quello che aveva detto la sera prima a proposito del lupo da tenere lontano. Avevo pensato che questo lupo fosse qualcosa di grosso. Ma se, al contrario, fosse stato qualcosa di molto piccolo? L’ho guardato, lì a capotavola, seduto al posto d’onore, con le forti dita che stringevano distrattamente il gambo di un bicchiere di vino, con gli occhiali rotondi sul viso rotondo segnato dalle rughe, e gli occhi vivaci che appena smetteva di parlare diventavano tristi.

Mentor Petrela e Henry Marsh. Tirana, 27 agosto 2015. (Paolo Pellegrin, Magnum/Contrasto)

La mattina dopo, calda e radiosa come la precedente, Marsh era seduto su un divano nero nel salottino accanto alla sala operatoria, vestito di un camice chirurgico azzurro con la mascherina che gli pendeva sotto il mento. Quando sono entrato mi ha rivolto un breve sorriso.
“È nervoso prima di operazioni come questa?”, gli ho chiesto.
Ha fatto cenno di sì.
“Sempre. Ma quella di oggi è relativamente semplice. L’importante è sapere quando fermarsi”.

Sono entrato nella sala operatoria. Hasanaj era stato già portato dentro. Era steso nella stessa posizione del giorno prima, leggermente sollevato, con un braccio appoggiato su un sostegno e la testa bloccata dalla morsa. Questa volta, però, era sveglio. Guardava fisso davanti a sé. Un medico gli stava tamponando la testa con una sostanza bruna. Quando ha finito, ha inserito una siringa nel cuoio capelluto lungo tutti i punti che gli avevano messo il giorno prima. Doveva essere doloroso, ma Hasanaj non faceva un fiato, rimaneva lì immobile. Un telo verde lo copriva fino agli occhi, in modo tale che il suo viso rimanesse sotto una specie di tenda e si vedesse solo il cranio. Dashi si è seduto su una sedia accanto a lui. Marsh è entrato e ha cominciato a studiare il monitor che mostrava l’ultima scansione cerebrale.

“Il tumore è qui”, mi ha detto. “Perciò so cosa aspettarmi. Ma non si può mai dire fino a quando non lo si vede direttamente”. Xhumari ha cominciato a rimuovere i punti. Ha piegato indietro il cuoio capelluto e scoperto il cranio. La parte umida sotto il cuoio capelluto è stata subito coperta con tamponi di garza, che circondavano la testa come un cratere bianco e rosso. Xhumari e Petrela hanno delicatamente aperto le graffe di metallo e sollevato la calotta. Erano entrambi immobili, con la testa piegata a un angolo di circa 90 gradi, come quello delle braccia, che tenevano strette ai fianchi come ali d’uccello; per lunghi periodi, le mani erano le uniche parti del loro corpo che si muovevano. Non parlavano e il sibilo dell’aspiratore riempiva la stanza.

Marsh camminava avanti e indietro. Sembrava un attore che si preparava a entrare in scena, irradiava la stessa energia inquieta, concentrata e leggermente ansiosa. Si è avvicinato.
“In Inghilterra, a questo punto chiacchierano tutti. La distrazione è un ottimo antidolorifico”. Mi ha guardato. “Qui la cultura è diversa. È più verticale. A Londra è più orizzontale. Ah, questo silenzio da chiesa”.
È andato verso Dashi.
“Come sta il paziente?”.
Dashi si è piegato in avanti, quasi infilandosi sotto la tenda. Ho sentito la voce di Hasanaj dire qualcosa in albanese. Dashi ha alzato lo sguardo verso Marsh.
“Sta bene”, ha detto.
“Ottimo!”, ha commentato Marsh.

Appena Marsh ha cominciato a operare, tutta la sua irrequietezza è scomparsa all’improvviso

Xhumari ha sollevato la calotta, la cui parte inferiore era coperta di sangue coagulato, e l’ha passata all’infermiera, che l’ha posata su un vassoio e l’ha coperta. Poi ha tolto i punti alle meningi e io ho guardato dritto nel cervello di Hasanaj mentre lui fissava il vuoto davanti a sé. Il cervello era lucido e coperto di vasi sanguigni, che apparivano contorti come piccoli vermi rossi sulla superficie giallo-grigiastra. Petrela ci ha spruzzato dell’acqua sopra con una siringa. Xhumari ha fatto qualche passo indietro per lasciare il posto a Marsh, che si è piegato in avanti.

“Quello è il tumore, vero? Interessante”.
Ha alzato gli occhi verso di me.
“Lo vede?”.
Ho scosso la testa. Mi sembrava tutto uguale.
“Eccolo lì, è una zona leggermente più rosa”.
Si è raddrizzato e io mi sono fatto da parte, rendendomi conto che l’operazione stava per cominciare. Gli hanno passato uno strumento lungo e stretto che somigliava a un diapason, collegato con un filo a una scatola sotto il monitor. Accanto a questo c’era un’infermiera pronta a seguire le istruzioni di Marsh.
“Questa dovrebbe essere la corteccia sensoriale. Se mi sbaglio, dovrebbe muoversi”.
Ha chiesto all’infermiera di regolare l’apparecchio al livello tre e ha toccato il cervello con il diapason. Si è sentito un ronzio elettrico e io sono andato a mettermi in un posto da cui potevo vedere Hasanaj.
“Dashi?”.
“Niente”.
“Lo metta a quattro”.
L’infermiera ha girato la manopola. Marsh ha toccato di nuovo il cervello e Dashi ha parlato con Hasanaj, che ha risposto qualcosa.
“Lo sente”, ha detto Dashi.
“Questa è la faccia”, ha detto Marsh quasi a se stesso. “Lo porti a cinque”.
Dashi ha parlato con Hasanaj.
“Braccio sinistro, faccia, lingua”, ha detto.

Marsh ha toccato il cervello di nuovo. Questa volta Hasanaj ha sollevato rapidamente in aria il braccio sinistro, come se fosse stato tirato dalla corda di un burattinaio. Il braccio ha tremato per qualche secondo, poi si è posato di nuovo.
Non credevo ai miei occhi. Era come se avessero acceso un robot.
“Movimento braccio sinistro”, ha detto Dashi.
Marsh ha spostato lo strumento e Hasanaj ha battuto un paio di volte una palpebra.
“Movimento occhio sinistro”, ha detto Dashi.
“Adesso potete portare il microscopio”, ha detto Marsh.
Mentre avvicinavano il microscopio, attaccato con un braccio mobile a una grande macchina a cui era collegato un monitor, mi sono accovacciato davanti a Hasanaj.
“Come va?”, gli ho chiesto.
Ha sorriso debolmente e detto qualcosa in albanese.
“Va tutto bene”, ha tradotto Dashi.
“Sente dolore?”.
“Solo un po’, all’orecchio”.

Appena Marsh si è chinato sul microscopio e ha cominciato a operare, tutta la sua irrequietezza è scomparsa all’improvviso. Era come se fosse salito su un palcoscenico dove si applicavano altre regole. Si è piegato in avanti e ha parlato con Hasanaj. “Il tumore è in una buona posizione. Tra un po’ le chiederò di muovere alcune parti del corpo, soprattutto del viso”.

Vedevo sul monitor che Marsh stava scavando un piccolo buco nel tumore, che a me sembrava identico al resto del cervello. Nella mano sinistra teneva uno strumento che usava per far coagulare il sangue, nella destra aveva un aspiratore che, con infinita cura, usava per polverizzare e rimuovere, frammento per frammento, pezzetti di tessuto che finivano nel tubo con il sangue e l’acqua. Li vedevo allontanarsi velocemente lungo il tubo di plastica e sparire. Accanto a lui c’era Petrela, che continuava a spruzzare acqua sulla superficie. Usando Dashi come interprete, Marsh ha chiesto a Hasanaj di muovere prima la bocca e poi gli occhi.

Il buco nel tumore si allargava lentamente. Marsh ha tirato fuori di nuovo lo stimolatore. Questa volta ha dovuto portarlo a otto per avere una reazione, e Dashi ha detto: “Faccia”. Marsh mi ha fatto cenno di avvicinarmi. “Vede questo? Questa macchia? È il centro che controlla i movimenti facciali. Non lo dobbiamo toccare”. Tutte le espressioni di cui era capace il viso umano nascevano da quella piccola macchia? Tutta la gioia, il dolore, tutta la luce e il buio che inondavano il viso nel corso di una vita, dipendevano da quella cosa? Il tremolio del labbro che anticipa le lacrime, gli occhi che si stringono per la rabbia, gli improvvisi scoppi di riso?

Marsh continuava a lavorare con i due strumenti. Rovistava, spingeva e spostava continuamente con l’aspiratore, e ogni tanto usava l’altro strumento, senza traccia di esitazione, senza fermarsi, apparentemente senza pensare. Ha tirato fuori di nuovo lo stimolatore e lo ha spinto verso il fondo del buco.
“Questa dovrebbe essere ancora la faccia”, ha detto.
“Niente”, ha risposto Dashi.
“Niente?”.
Dashi ha scosso la testa e Marsh ha continuato a lavorare.
“Qui il tumore somiglia troppo al cervello, questo è il problema”, ha detto. “Vuole vedere?”.

Si è tirato indietro e mi sono chinato di nuovo sul microscopio. Questa volta la vista era completamente diversa. Era come se stessi guardando dentro un’enorme grotta, alla base della quale c’era una pozza di liquido rosso. A volte arrivava uno schizzo d’acqua da destra, come se provenisse da un grande tubo di gomma. Non avevo mai visto niente del genere, le pareti della grotta erano palesemente vive, fatte di tessuto vivo. Lungo i bordi della pozza, sopra la superficie rossa, le pareti erano sfrangiate. Dietro la parete più interna, che appariva leggermente gonfia, come un palloncino che sta per scoppiare, ho intravisto qualcosa di viola.

L’operazione era riuscita, la tensione si era sciolta. Ormai non vedevo altro che la vita e i vivi

Quando mi sono fatto da parte per lasciare di nuovo il posto a Marsh, mi sono reso conto che trovavo difficile sovrapporre le due prospettive, avevo la sensazione che fossero due livelli di realtà diversi, come quando camminavo nel sonno e la realtà faticava ad avere la meglio. Avevo guardato in una stanza diversa da tutte le altre, e quando avevo sollevato lo sguardo, quella stanza era nel cervello di Hasanaj, che aveva gli occhi fissi davanti a sé, steso sotto un telo in una stanza più grande, piena di dottori e infermieri, macchinari e strumenti, e al di là di quella ce n’era una ancora più grande, calda e polverosa, fatta di asfalto e cemento, sotto una catena di montagne verdi e un cielo azzurro.

Tutte quelle stanze si affollavano nel mio cervello, che era esattamente come quello di Hasanaj, una massa umida e scintillante simile a una noce, composta di cento miliardi di cellule cerebrali così minuscole e numerose da poter essere paragonate alle stelle di una galassia. Eppure quella che formavano era carne, e i processi che si svolgevano al loro interno erano semplici e primitivi, regolati da varie sostanze chimiche e alimentati dall’elettricità. Come faceva a contenere queste immagini del mondo? Come facevano i pensieri a nascere in quel pezzo di carne?

Marsh si è fermato e ha preso di nuovo lo stimolatore per inserirlo nel buco.
Dashi ha detto qualcosa a Hasanaj che gli ha risposto .
“Niente”, ha detto il neurologo.
Marsh ha stimolato di nuovo il fondo.
“Niente”.
“Niente”.
“Braccio sinistro, faccia”.
“Braccio sinistro, faccia?”.
“Sì”.
“Allora ci fermiamo qui”.

Marsh ha fatto qualche passo indietro e il microscopio è stato portato via. I suoi occhi, l’unica parte del viso che potevo vedere, sembravano allegri. Xhumari e Petrela sono tornati al lavoro, e Marsh, dopo aver detto a Hasanaj che era andato tutto bene, ha lasciato la sala operatoria. Mi sono avvicinato al paziente e mi sono chinato su di lui. Aveva l’aria stanca, gli occhi semichiusi, il volto inespressivo.
“Come si sente?”, gli ho chiesto. Hasanaj ha sorriso e ha alzato il pollice. Dashi ha riso. Aveva la schiena completamente coperta di sudore.

Dopo l’operazione, che è durata circa tre ore, mi hanno portato in macchina in un parco appena fuori del centro, dove c’era un ristorante rustico in legno scuro con le cameriere vestite nei costumi tradizionali, e lì abbiamo pranzato. La temperatura era di 35 gradi, le cicale frinivano, tutto il verde intorno a noi era illuminato dai raggi ardenti e dorati del sole. Tutti erano di buon umore, soprattutto Marsh. C’era una nuova leggerezza in lui e sembrava più aperto. Non che prima sembrasse chiuso, ma quell’ombra che leggevo sul suo viso era scomparsa.

Anch’io ero felice. La vista delle montagne dietro la città, così verdi e superbe, mi rallegrava, anche la vista del cervello, il suo aspetto fisiologico – i bordi frastagliati del cranio dentro il quale pulsava, il sangue rosso che scorreva – era piacevole da ricordare, perché tutti i colori vivaci al suo interno collegavano il paesaggio del cervello all’erba che cresceva sotto la veranda dove eravamo seduti e agli alberi che frusciavano leggermente nella brezza, e quello che il cervello conteneva, tutte quelle immagini e quei pensieri che non potevano mai essere separati dalla loro sostanza materiale, lo collegavano alla città sotto di noi, così piena di sogni, desideri, speranze e fantasie.

Il fatto che quella stessa città fosse anche piena di malattia e di povertà, di tragedia e di morte, era una cosa su cui non mi soffermavo a pensare, come il fatto che il cervello che avevo visto era malato. L’operazione era riuscita, la tensione si era sciolta. Ormai non vedevo altro che la vita e i vivi.

La mattina dopo abbiamo fatto una gita al porto di Durazzo e a Berat, una cittadina tra le montagne. Anche se avevamo passato solo tre giorni insieme, sembrava che ci conoscessimo da anni. Marsh mi ha illustrato l’architettura e il funzionamento del cervello. Mi ha spiegato come raggiungevano i tumori conficcati più in profondità nel cervello, che, per dirla in parole molto povere, è accartocciato come un foglio di carta, quindi pieno di pieghe che bisogna spostare per andare avanti. Esistono anche le cosiddette zone silenti, che possono essere tagliate senza danneggiare nessuna funzione cerebrale. Mi ha raccontato anche delle volte in cui le cose erano andate male e il paziente era morto sul tavolo operatorio davanti a lui. “Ho ucciso delle persone”, ha detto.

Mi ha raccontato di operazioni difficili che alla fine erano riuscite e dell’euforia che aveva provato. Mi ha detto che la chirurgia è al 50 per cento visiva, cioè dipende da quello che si riesce a vedere, e al 50 per cento tattile, cioè determinata da quello che si riesce a toccare. Mi ha detto che la chirurgia cerebrale è una sorta di artigianato: per diventare bravi, bisogna fare molta pratica e a volte anche commettere degli errori, in una professione in cui sbagliare è inaccettabile e può essere fatale. Se hai un figlio con un tumore, vuoi per lui il chirurgo migliore. Ma per diventare i migliori, che è semplicemente una questione di esperienza, bisogna prima operare qualche bambino senza avere nessuna esperienza, e allora cosa dici ai genitori? Che il loro figlio è importante per il futuro di un giovane neurochirurgo ancora non collaudato?

Ha parlato un po’ della specificità degli interventi sui bambini. I loro tessuti sono molli e bellissimi, molto diversi da quelli delle persone più grandi. Un bambino è fresco e pulito dentro come lo è fuori. Ma c’è il problema della perdita di sangue; può perdere in poco tempo una quantità di sangue tale da rischiare la vita. E bisogna accollarsi anche il peso dell’ansia e della disperazione dei genitori. Ma per i bambini stessi, è facile. Se non soffrono, sono felici. Non si creano problemi esistenziali.

Mi ha parlato di suo padre, che insegnava diritto all’università di Oxford, e di sua madre, che era arrivata in Gran Bretagna come rifugiata dalla Germania nazista prima della guerra, e di come tutti e due avevano contribuito alla fondazione di quella che è oggi Amnesty international. Mi ha parlato della sua giovinezza, di quanto era timido, di come restava in casa a leggere libri mentre tutti gli altri andavano in giro. Lui non andava mai nei locali, non usciva mai con le ragazze.

Sembrava che sentisse tutto quello che c’era nella stanza, che fosse in rapporto con tutto

Mi ha raccontato di una crisi che aveva avuto da ragazzo. Era caduto in una profonda depressione e aveva passato un periodo di tempo nel reparto psichiatrico di un ospedale. A quell’epoca scriveva poesie che si ispiravano a Sylvia Plath. Mi ha detto che la professione medica che aveva scelto gli era sembrata sicura, qualcosa che lo avrebbe tenuto ancorato alla realtà. Mi ha raccontato dei rapporti con i suoi fratelli e i suoi figli. “Mi mettevo in competizione con i miei figli”, ha detto facendo una smorfia al ricordo. “Se lo immagina? Volevo sempre dimostrargli quanto ero in gamba. È una delle cose peggiori che tu possa fare ai tuoi figli”. Mi ha raccontato di come era finito il suo primo matrimonio e come stava andando il secondo.

Era molto sincero, ma non dava l’impressione che si stesse confessando; sembrava piuttosto che tutte le nostre conversazioni portassero a qualcosa di più serio, quasi indipendentemente da come erano cominciate, forse perché le situazioni da cui nascevano erano tutte questioni di vita o di morte, e perché i posti in cui si svolgevano erano in un certo senso lontani da noi, eravamo immersi in una cultura che ci era estranea, ma al tempo stesso vicini. Eravamo seduti su una terrazza al settimo piano, circondati dal mare azzurro intenso che si estendeva in tutte le direzioni, scintillava al sole, con poche persone, rese minuscole dalla distanza, che camminavano nell’acqua bassa per una cinquantina di metri, e con il cielo di un azzurro leggermente più chiaro sopra di noi.

Oppure in piedi in una vecchia chiesa ortodossa di pietra tra le montagne, davanti a una fila di icone appese alla parete, con i loro radiosi colori, oro, rosso, azzurro, sotto una cupola con tre buchi circolari attraverso i quali penetrava la luce. Eravamo seduti in una macchina che sfrecciava nel buio della campagna albanese dopo una lunga giornata al sole.

O camminavamo nel cuore di Tirana attraverso stradine strette immerse in un profondo silenzio, passando davanti a case e muri fatiscenti, con i loro impianti elettrici precari e i bambini sporchi che giocavano nei vicoli, a poche centinaia di metri dai viali del centro. Diverse volte, quando accennava a qualcosa di personale, gli ricordavo che avrei scritto un articolo su di lui. “Si rende conto che potrei scrivere quello che mi ha appena detto?”. Lui si limitava a sorridere e diceva che era proprio quella la sua strategia. Più mi parlava di cose personali, più era probabile che l’avrei trovato simpatico e avrei scritto bene di lui.

L’unico momento in cui ho visto Marsh arrabbiato è stato la mattina prima della seconda operazione. Aveva programmato di parlare con la paziente, ma Petrela lo aveva informato che era già in sala operatoria e le stavano aprendo la testa.
“Accidenti”, ha quasi strillato battendo il piede a terra e frustando l’aria con la mano.
“Può vederla domani mattina prima dell’intervento”, ha detto Petrela.
“D’accordo, farò così”, ha replicato Marsh in tono calmo, ma i suoi occhi erano ancora arrabbiati.

Lui e Petrela sono andati invece a vedere come stava Hasanaj. E io li ho accompagnati. Mentre spingeva il bottone dell’ascensore in fondo al corridoio Petrela ci ha raccontato che quando era morto il re, o meglio il figlio del re, il suo erede, il corpo era stato portato in questo ospedale, e quando lo avevano riportato via avevano usato quell’ascensore. La cabina si era fermata tra due piani con il re morto all’interno, e c’erano volute due ore per farla ripartire. Le porte si sono aperte e siamo entrati. “Una cosa è rimanere bloccati in ascensore con un cadavere”, ha detto Marsh. “Un’altra è quando il cadavere è quello di un re”.

Hasanaj era solo in una stanza al terzo piano. Era seduto dritto sul letto sostenuto dai cuscini, con tutta la parte superiore della testa avvolta nelle bende. Quando ha visto Marsh e Petrela il suo viso si è illuminato. Ma c’era qualcosa di vagamente grottesco in quel sorriso, perché un lato della faccia era paralizzato, e la bocca pendeva un po’ all’ingiù, quindi sembrava più una smorfia che un sorriso. Marsh gli ha detto che un lato del suo corpo era temporaneamente indebolito, ma questo era abbastanza normale e presto si sarebbe ripreso. Hasanaj ha annuito, aveva capito, ha fatto di nuovo quella smorfia e ha riso debolmente, con gli occhi che gli brillavano.

Il giorno dopo ho incontrato la seconda paziente. Si chiamava Gjinovefa Merxira e aveva 21 anni. Era cresciuta a Burrel, un paesino di 15mila abitanti dell’Albania settentrionale, e si era trasferita a Tirana per studiare medicina . Aveva gli occhi scuri, il viso largo, i tratti puri e giovani. Le ho chiesto di raccontarmi il suo primo attacco. Mi ha detto che lo aveva avuto a sette anni. Era d’inverno, stava pattinando sul ghiaccio con i suoi amici e si era accasciata a terra. Vedeva gli amici come attraverso una nebbia. Quando era arrivata a casa, non aveva riconosciuto sua madre. L’aveva guardata in faccia e non l’aveva riconosciuta. La madre le aveva chiesto: “Perché mi fissi così?”, e lei aveva detto che non la stava fissando e aveva cominciato a piangere. Aveva solo sette anni e un terribile mal di testa, ma nessuno aveva pensato che fosse una cosa grave.

Aveva continuato ad avere attacchi come quello una o due volte all’anno. Una volta, mentre guardava la tv, le lettere dei sottotitoli avevano cominciato a uscire dal televisore e a ballarle davanti. Un’altra volta, aveva visto un fuoco in giardino, un grande fuoco, ma quando stava per mettersi a gridare era scomparso. Gli attacchi erano accompagnati da mal di testa, incubi, a volte torpore. Altre volte ogni rumore le sembrava un suono di campane.

Dato che gli attacchi erano sempre della stessa intensità e si verificavano regolarmente ma di rado, non aveva mai pensato che fossero qualcosa di grave. Non era mai andata da un dottore fino a un incidente che le era capitato quando aveva 17 anni. Stava facendo un esame di matematica a scuola e aveva cominciato a vedere fiori invece dei numeri. Si era messa a piangere. Voleva andare bene a quell’esame, ma non riusciva a fare i calcoli perché vedeva solo fiori, in bianco e nero. A quel punto era andata in ospedale. L’avevano visitata ma non le avevano trovato nulla, le avevano dato una medicina per gli attacchi e l’avevano rimandata a casa.

Nel novembre del 2014, era seduta in un caffè di Tirana con alcuni amici e aveva cominciato a vedere cose che fluttuavano sopra il tavolo. Quando era arrivata a casa, a sinistra non vedeva nulla, e gli amici, molto preoccupati per lei, l’avevano portata in ospedale. Lei non si era agitata, perché ormai sapeva che sarebbe passato. Quella volta i medici scoprirono cosa c’era che non andava: aveva un tumore nella zona del cervello che controlla la visione. Avevano deciso di operarla, ma non prima di agosto, e a fare l’intervento sarebbe stato Henry Marsh, che quella mattina si era finalmente fermato davanti al suo letto al terzo piano dell’ospedale di Tirana.

Merxira aveva la testa bendata perché il suo cranio era stato aperto la sera prima, e guardava Marsh con i suoi giovani occhi spaventati. Lui le ha detto più o meno le stesse cose che aveva detto a Hasanaj: che aveva già fatto quell’operazione più di 400 volte, che era praticamente indolore, che sarebbe stata sveglia perché era meno pericoloso; ma con lei è sceso nei dettagli più di quanto aveva fatto con Hasanaj, probabilmente perché la ragazza studiava medicina e quindi avrebbe capito. Forse era proprio per quello che sembrava più spaventata.

Quando qualche ora dopo l’ho rivista, in sala operatoria con la testa bloccata nella morsa, quell’ansia era ancora lì nei suoi occhi. Sembrava che sentisse tutto quello che c’era nella stanza, che fosse in rapporto con tutto, mentre mi era sembrato che Hasanaj volesse evitare qualsiasi contatto con l’esterno, che accettasse tutto passivamente e avesse deciso di sopportarlo fino a quando non fosse finito. Non mi ero quasi accorto che Pellegrin stesse fotografando l’operazione di Hasanaj, faceva parte dei movimenti della stanza, ma ora, a causa della maggiore vulnerabilità di Merxira, ero più consapevole della presenza della macchina fotografica e del flash.

A parte il ronzio regolare dell’aspiratore, nella sala operatoria c’era il silenzio più assoluto

I medici hanno attaccato i teli di plastica a un supporto, così che la testa rimanesse sotto una piccola tenda, con la parte inferiore coperta e quella superiore scoperta.
“A Londra usiamo teli trasparenti”, ha detto Marsh, “per permettere al chirurgo di vedere sempre il paziente”.
Dopo aver tamponato la testa e somministrato l’anestetico locale, l’assistente chirurgo Arsen Seferi ha cominciato a rimuovere i punti. Merxira si è messa un braccio sugli occhi e ha emesso un basso, lungo gemito.
Dashi le ha detto qualcosa e lei ha risposto, poi è ammutolita di nuovo.
Seferi ha posato il bisturi e ha cominciato a rimuovere le graffe intorno alla calotta. Poco dopo, ha messo da parte anche quella, ha inciso le meningi e ha scoperto il cervello. Da lontano, le garze intrise di sangue che avvolgevano il cranio sembravano fiori.

Marsh si è avvicinato e ha studiato il cervello. “Proprio come pensavo. La superficie sembra normale. Il tumore è sotto”. Un’infermiera gli ha porto il dispositivo per la mappatura, che tutti chiamavano gps, e Marsh lo ha passato lentamente sopra il cervello studiando le immagini che apparivano sul monitor.
Dopo un po’ ha cambiato strumento. Ha preso lo stimolatore elettrico e ha cominciato a premerlo sulla superficie del cervello. L’apparecchio ha emesso un breve ronzio. Dashi ha parlato con Merxira e ha detto qualcosa a Marsh, che ha stimolato di nuovo il cervello. Si è sentito un’altra volta il ronzio. Dashi ha parlato di nuovo e Marsh ha cominciato a operare.

“Tra poco dovremmo incontrare un tumore gommoso”, ha detto.
“Aah”, si è lamentata la ragazza.
Quando l’ho guardata, aveva di nuovo appoggiato il braccio sugli occhi.
“Il gps ci stava portando fuori strada”, ha detto Marsh. “Ah, eccolo!”.
“Se ti fidi troppo del gps, rischi di farli finire al cimitero”, mi ha detto a bassa voce Petrela.
“Eccolo qui”, ha detto Marsh facendomi cenno di avvicinarmi. “La vede la differenza?”.
Una zona era più grigio-giallastra delle altre, ma la differenza era così impercettibile che io non l’avrei mai vista se Marsh non me l’avesse fatta notare.
Continuava a scavare nella zona malata.
Merxira gemeva.
Improvvisamente si è sentito quasi un grido.
“Aah!”.
“Il cervello è insensibile”, ha detto Marsh. “Quello che provoca dolore sono i vasi sanguigni quando vengono spostati o piegati. È questo che sta sentendo. È una specie di scossa”.
Ha guardato Dashi.
“Le fa molto male?”.
Dashi ha detto qualcosa a Merxira, che ha risposto a bassa voce.
“Sente dolore, ma può sopportarlo”, ha detto Dashi.

All’improvviso è scattato un flash. Ho alzato gli occhi. Pellegrin era accovacciato vicino alla parete e stava fotografando il tavolo operatorio. Presumibilmente con il viso della ragazza ben visibile sotto il telo verde.
Marsh ha continuato ad aspirare il tumore alla base del buco che aveva scavato. Merxira si lamentava. Essere lì era quasi insopportabile.
“Non vogliamo fare danni”, ha detto Marsh e mi ha mostrato un vaso sanguigno al microscopio, era bluastro tra le pieghe del cervello. “Se lo danneggiassimo, il sangue non potrebbe più defluire dalla testa e riempirebbe il cervello”.
“Quanto è distante dal tumore?”, ho chiesto.
“Uno o due millimetri”, ha risposto.
Ha continuato a operare assistito da Petrela, che schizzava acqua sulla superficie. Dashi parlava con la ragazza a intervalli regolari, chiedendole di guardare una tabella per l’esame della vista e giudicando i progressi di Marsh in base alle sue risposte.
Marsh ha asportato un intero pezzo di tumore, che l’infermiera ha posato su un vassoio.

A parte il ronzio regolare dell’aspiratore, nella sala operatoria c’era il silenzio più assoluto. Marsh era tutto concentrato sul suo lavoro. Muoveva solo le mani.
Dashi ha messo di nuovo la tabella davanti a Merxira.
“Un leggero appannamento della vista a sinistra”, ha detto.
Marsh si è fermato.
Ha sollevato la testa dal microscopio e mi ha guardato. “Quando senti che sei sempre più ansioso devi fermarti”, ha detto. “Si impara con l’esperienza”.
Si è piegato sulla paziente e le ha detto che l’operazione era riuscita, che tutto era andato come doveva andare.
Non avevo osato parlare con lei durante l’intervento. Ma a quel punto mi sono avvicinato. Volevo chiederle come stava, ma poi l’ho vista stesa lì, che si riparava gli occhi con la mano, e invece le ho detto con la voce impastata: “È stata molto coraggiosa”.
Quando sono sceso al piano di sotto e mi sono tolto il camice, la mascherina e la cuffia usa e getta mi sono accorto che tremavo.
“Accidenti”, ha detto Pellegrin. “Era come se la mente della ragazza riempisse tutta la stanza”.

Più tardi, quello stesso giorno, sono andato alla Galleria nazionale a vedere i dipinti dell’era comunista. Erano esposti in due grandi saloni, e per tutta l’ora che sono rimasto lì non ho incontrato neanche un visitatore. Ogni tanto sentivo dei bambini che giocavano nel giardino lì fuori, le loro grida e le loro risate si levavano sul ronzio lontano e monotono della città. Molti dei quadri mostravano uomini e donne che lavoravano. In uno, veniva eretta quella che sembrava un’enorme torre di trasmissione in un paesaggio brullo e montuoso in cui ferveva una grande attività, mentre una donna, chiaramente un’ingegnera, studiava dei disegni e un uomo indicava con la mano. Stavano costruendo una nazione, creando un nuovo mondo.

Negli anni settanta, in Norvegia, i giovani intellettuali consideravano l’Albania un paese all’avanguardia, una specie di utopia, una terra del futuro, l’ideale a cui avremmo dovuto tendere. Quando gliel’avevo detto, durante la nostra prima cena, Petrela si era preso la testa tra le mani.
“Ma era una bugia”, aveva detto. “Era tutta una bugia. Come potevate crederci?”.
“Non lo so”, avevo risposto. Ma quando ho visto i quadri del museo, sono rimasto affascinato.

Quello che ho guardato più a lungo rappresentava una giovane famiglia. Il padre portava un bambino sulle spalle, la madre aveva uno zainetto in mano, un altro bambino correva davanti a loro. Camminavano attraverso un paesaggio montuoso, l’erba era verde, quasi color pastello, il cielo era luminoso, sopra le loro teste era sospeso un elicottero. Sorridevano tutti, adulti e bambini. Stavano andando verso il futuro pieni di gioia e di speranza. Tutto era chiaro, puro, semplice e vigoroso. Perché il mondo non poteva essere così? Cosa c’era di tanto sbagliato in quei quadri? Cosa c’era di sbagliato nel mondo che rappresentavano?

Quando sono uscito di nuovo in strada, il sole era basso nel cielo e l’aria che prima era limpida si era un po’ offuscata. C’era una leggera foschia, come spesso succede poco prima del tramonto. Nel viale davanti a me, le macchine aspettavano che scattasse il semaforo. Una vecchia curvata in due camminava tra le file appoggiata a una gruccia con una tazza in mano. Ha bussato al finestrino di una delle macchine. Dentro c’erano due donne, che hanno entrambe girato la testa e guardato dall’altra parte, come fanno sempre tutti quando vogliono distogliere gli occhi da un mendicante.

Avevo sempre considerato i miei pensieri qualcosa di astratto, ma non lo erano, erano fatti di materia come il cuore che batteva nel mio petto

Sono entrato in un parco e mi sono diretto verso un grande complesso di ristoranti affacciato su una piscina bassa ma piuttosto grande, azzurra con la vernice scrostata. Lo avevano costruito i cinesi, mi aveva detto Fejzo, e la gente della zona lo chiamava “Taiwan”. Mi sono seduto su una delle poche sedie vuote all’esterno e mi sono messo a guardare le persone che erano lì intorno, chiedendomi che rapporti avessero tra loro e con il mondo.

Avevo sempre considerato i miei pensieri qualcosa di astratto, ma non lo erano, erano fatti di materia come il cuore che batteva nel mio petto. E lo stesso discorso valeva per la mente, l’anima, la personalità, era tutto fissato nelle cellule e dipendeva dai vari modi in cui interagivano tra loro. Anche tutti i nostri sistemi, il comunismo, il capitalismo, la religione, la scienza erano frutto delle correnti elettrochimiche che scorrono attraverso quel chilo e mezzo di carne chiuso nel nostro cranio.

A guardarlo non si capiva. Era come esaminare una pietra delle fondamenta della basilica di San Pietro per trovare il segreto di tutto l’edificio. Era tutta una bugia, aveva detto Petrela del comunismo albanese. Ma lo era sul serio? Avevo chiesto a Marsh se credeva in dio, in una vita dopo la morte. Aveva scosso la testa. “È tutto qui”, aveva detto.

Usiamo i nostri sistemi per tenere lontano il lupo, ho pensato. E i sistemi non sono altro che vasti complessi di nozioni e concetti. Tutto quello che ci fa dimenticare la parte meschina, patetica e insignificante di noi stessi. È quello il lupo. Quella parte goffa, distorta o stupida dell’anima, i rancori e le invidie, il buio e la disperazione, la gioia infantile e il desiderio irrefrenabile. Il lupo è quella parte della natura umana per la quale non c’è posto nei sistemi, quell’aspetto della realtà che la nostra mente, il firmamento che il cervello costruisce sopra la nostra vita, non è in grado di penetrare. Il lupo è la verità.

Allora perché Marsh vorrebbe tenere lontano il lupo? Visto da fuori, sembrava che il ruolo del chirurgo gli avesse fornito un contesto più ampio in cui eccellere e dominare la vita e la morte, dove non c’era posto per tutto quello che in lui era piccolo e insicuro. Essere un chirurgo dava senso alla sua vita, trasferiva quel significato da lui al sistema, teneva lontano il lupo.

Al tempo stesso, quel ruolo rivelava la mancanza di significato di tutto. I tumori si sviluppavano per caso, la gente moriva per caso, ogni giorno, dappertutto. Potevi cercare di non vederlo nascondendolo dietro i numeri, dietro le statistiche, dietro i teli di plastica che rendevano il paziente una creatura senza volto.

La grandezza di Marsh consisteva proprio nel fatto che non nascondeva quella piccolezza ma usava la comprensione che ne aveva per combattere contro tutto quello che la nascondeva, l’istituzionalizzazione degli ospedali, la disumanizzazione dei pazienti, tutti i rituali creati dalla professione medica per mantenere le distanze e per trasformare il corpo dei pazienti in qualcosa di astratto, di generico, una rotella del sistema.

Fejzo mi aveva raccontato una storia che aveva sentito a Londra. Marsh non l’aveva citata nel suo libro, e per quanto ne sapesse Fejzo, non ne aveva mai parlato, glielo aveva detto un suo collega. Una volta Marsh aveva operato un bambino di pochi mesi, e l’intervento non era riuscito. Il bambino era morto sul tavolo operatorio. Marsh era andato a parlare con i genitori di persona. Gli aveva detto che aveva commesso un errore e che il loro bambino era morto. Aveva pianto con loro. “Nessun medico fa mai una cosa del genere”, aveva detto Fejzo. “Nessuno”.

Intorno a me stava calando il buio. Un uomo è passato tra i tavoli con un passeggino. Dentro c’era un bambino. Avrà avuto un anno e mezzo, e quando il padre si è seduto a un tavolo, gli ha teso le braccia. Il padre lo ha slegato, lo ha sollevato e se lo è messo sulle ginocchia. Ha scherzato con lui per un po’. Il bambino rideva. Anche quella era la verità.

Poi il padre si è acceso una sigaretta, ha tirato fuori il cellulare e si è messo a digitare. Il bambino protestava per l’improvvisa mancanza di attenzione. Il padre gli ha dato il pacchetto di sigarette e lui si è messo a giocare tutto contento, mentre la luna saliva lentamente sui tetti delle case, color giallo intenso contro il cielo blu scuro. ◆ bt

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