È veramente difficile non voler bene a Non essere cattivo, e non solo perché il suo regista Claudio Caligari ha finito di girarlo nelle sue ultime settimane di vita, con una determinazione e una lucidità che hanno lasciato sorpresa la stessa troupe. I medici gli avevano dato come massima speranza febbraio, Caligari è riuscito a resistere fino a maggio, all’ultimo ciak, e al premontato.

È davvero complicato non amare questo film, fin dalla prima inquadratura: una ripresa in campo lungo del pontile di Ostia – Cesare che corre e attraversa la rotonda centrale del lungomare, tagliandola per diagonale, e raggiunge Vittorio, il rumore delle onde, i gabbiani in sottofondo. Caligari rende un omaggio a se stesso e al suo pubblico innamorato e fedele, che l’ha seguito lungo un arco di trent’anni, citando, quasi a trasferello, una scena celebre del suo primo film di culto, Amore tossico.

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“Ahó, io sto incazzato fracico e te te stai a magnà er gelato”, dice Cesare a Vittorio. È la prima battuta di Non essere cattivo, e già riassume la poetica e l’etica – infantile, sfacciata, popolare, comica – di uno dei più grandi registi che abbiamo avuto in Italia, a cui solo un sistema produttivo demenziale non ha permesso di fare più dei tre film che ha girato (il secondo, anche questo bellissimo, L’odore della notte, è del 1998).

Doppio legame

Ma sarà faticoso non volere bene a Non essere cattivo anche per chi non sa nulla delle difficoltà realizzative (della lettera pubblica che Valerio Mastandrea scrisse lo scorso anno a Scorsese per catturare qualche produttore, di quanto ha continuato a spendersi); e anche per chi di Caligari non ha mai sentito parlare e quindi non coglie da subito l’idea di un ultimo capitolo, una chiusura (anche se malinconica e aperta) di una trilogia immaginaria, che nella testa di Caligari comprendeva un’opera sua solo di ispirazione, Accattone di Pier Paolo Pasolini (dove Vittorio era il nome del protagonista), e Amore tossico (dove Cesare era il nome del protagonista).

Tre film che raccontano la storia dolentissima, squinternata, ma al tempo stesso picaresca degli ultimi, dei periferici, dei marginalissimi: di coloro che senza colpa sono stati sconfitti negli anni sessanta dall’omologazione culturale spacciata per progresso, alla fine degli anni settanta dall’eroina, e – da ultimo, in Non essere cattivo, ambientato a metà anni novanta da un conformismo così piccolo borghese e condivisibile, da farci provare, a noi spettatori, la colpa e il dolore di chi è sopravvissuto.

Dal film Non essere cattivo. (Matteo Graia)

Caligari riesce a creare – una cosa davvero rarissima nel cinema italiano – un doppio legame con il suo pubblico, attraverso l’affetto smodato di chi ha perso letteralmente la vita per girare questo film e una sincerità dello sguardo possibile solo a chi intende il cinema come la più generosa delle arti.

Non essere cattivo è un film esigente, senza trucchi, che si regge solo su se stesso: sulla potenza della storia e dei personaggi, sull’intensità perfetta della sceneggiatura di Giordano Meacci e Francesca Serafini, su un montaggio visivo e sonoro che si mangia la struttura in modo famelico, e soprattutto sulla potenza delle inquadrature. È come se Caligari avesse girato davvero solo ogni scena necessaria, non un fotogramma di più – ma in ognuna di queste scene avesse voluto bucare lo schermo, andare addosso allo spettatore, invaderlo; con la stessa sballata invadenza con cui per esempio Cesare si butta letteralmente addosso agli altri personaggi, alle cose.

Sentiamo risuonare una sorta di minaccia profetica su quello che diventerà il nostro paese dagli anni novanta in poi

I due attori protagonisti, Luca Marinelli (Cesare) e Alessandro Borghi (Vittorio), recitano in stato di grazia, incarnando i corpi incontenibili di due amici fraterni, in un’Ostia che è un luogo sospeso, lontano da tutto.

Nemmeno trentenni, accattoni fuori tempo massimo, tossici di pasticche, svogliati ladri di quartiere, canaglieschi e puerili, nei cento minuti di Non essere cattivo si cercano, hanno bisogno l’uno dell’altro, litigano, si allontanano, si ritrovano; tutto retto da un’energia che non ha a che fare con le scelte e le decisioni, ma con una ragione del sangue con la quale cercano di non soccombere alla chimica sociale che li vorrebbe pacificati, integrati, adulti.

Come in Accattone di Pasolini, il lavoro – il sogno borghese del lavoro, dell’ascesa sociale – può significare l’annullamento tanto quanto la morte, e quando Vittorio – che ci si era presentato con un “Che mestiere fai?” “Niente, perché?” – decide di mettere la testa a posto e provare ad andare al cantiere, Cesare si sente perduto e tradito.

Ma non è solo lui a provare quello sconforto: anche noi al di là dello schermo non possiamo non sentirci pugnalati. Quando la nuova compagna di Vittorio gli chiede, guardando la loro casa sobria, normale: “Ma a te tutto questo te basta?”, sentiamo risuonare una sorta di minaccia profetica su quello che diventerà il nostro paese dagli anni novanta in poi, in preda ai sogni berlusconiani di miracoli italiani, di arricchimenti veloci.

E quando ogni tanto qualcuno dice: ndo nnamo?, la risposta è sempre speculare: eh, ndo nnamo?

Il paradiso artificiale delle pasticche contro quello ancora più falso della felicità consumistica: Cesare e Vittorio sono due animali in gabbia. E così vengono raccontati. Esagitati, voraci, compulsivi, con i denti digrignati, con gli occhi sempre arrossati dal sonno e dalle anfetamine, si muovono smascellando, avanti e indietro su macchine che sgommano per un pugno di strade di periferia; a calarsi in macchina, a prendersi un cornetto alle cinque di mattina, ad andare a una festa che non è mai allegra, ma solo un modo per tentare di esaurire questo ipercinetismo coatto.

Reso da un montaggio ellittico, coraggioso, da una fotografia notturna che anche di giorno ci dice che le luci sono solo fuochi fatui, da un suono che è organico al pulsare accelerato delle tempie di Cesare e Vittorio: un girare a vuoto che dà solo la sensazione del movimento, con le carrellate e i dolly meravigliosi di Caligari che accarezzano questa vitalità compressa come se stesse girando un filmino di famiglia. E quando ogni tanto qualcuno dice: “Ndo nnamo?”, la risposta è sempre speculare: “Eh, ndo nnamo?”.

Se il cinema italiano fosse stato un sistema più intelligente, Claudio Caligari avrebbe avuto la possibilità di mostrare la sua epica borgatara, postpasoliniana, melodrammatica, in modo più ampio, monumentale, continuo.

Mentre si guarda Non essere cattivo la nostalgia che si prova non è solo quella di essere spettatori di una tragedia italiana che avevamo semplicemente rimosso, ma anche quella dovuta al sapere che Caligari avrebbe potuto realizzare un ritratto lunghissimo, seriale, di quest’umanità: un The wire italiano, che avrebbe davvero raccontato gli invisibili – la microcriminalità, il proletariato suburbano, un mondo dove il bene e il male hanno ancora un valore metafisico e non solo morale.

Di questo mondo, come un esploratore, ha trovato la mappa, la lingua, le liturgie. Ora che non c’è più possiamo per fortuna almeno, ogni tanto, tornare ad abitarlo.

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