Da dieci anni l’attenzione al passato – sia quello nazionale sia quello condiviso con altri paesi – è parte integrante della politica estera russa. Dopo la seconda guerra mondiale, i paesi dell’Europa occidentale sono riusciti a superare le dolorose eredità del passato basandosi sui valori condivisi della libertà, della democrazia e dei diritti umani, e questo li ha aiutati non solo a migliorare i loro rapporti reciproci, ma anche a dare vita a strutture di integrazione sovranazionali (Unione europea e Nato). Rivali e nemici storici (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia ecc.) sono diventati membri di queste strutture.
Al contrario, i rapporti attuali tra la Russia e alcuni paesi dell’ex blocco sovietico (il cosiddetto “campo socialista”) sono stati segnati da conflitti e diffidenze, in alcuni casi provocati da visioni divergenti della storia.
È abbastanza naturale che ogni nazione abbia la propria narrazione storica e la propria interpretazione degli eventi del passato in cui è stata coinvolta direttamente. Queste narrazioni possono differire le une dalle altre, a volte in modo significativo.
Questo accade prima di tutto in nazioni confinanti che in passato hanno avuto rapporti complicati. E riguarda in particolare modo quelle nazioni che sono state incluse in un organismo statuale in cui però non godevano degli stessi diritti degli altri.
Coesistenza pacifica o guerra di narrazioni
Per fare un esempio, le interpretazioni della storia dello stato ungherese e dei motivi che hanno portato alla caduta della monarchia austro-ungarica sono molto diverse per gli ungheresi e per gli slovacchi (e ovviamente per i cechi, i romeni, i serbi e i croati). Anche altre nazioni hanno i loro esempi di narrazioni storiche divergenti.
Molto spesso queste versioni coesistono in modo più o meno pacifico, la loro natura reciprocamente escludente non sfocia in un aumento delle tensioni nei rapporti tra stati e non porta a conflitti aperti. Gli eventi recenti hanno però dimostrato che, nel caso delle relazioni tra alcuni paesi dell’Europa centrale e la Russia, le cose non stanno così. Perché?
La risposta è sorprendentemente semplice: perché la Russia di oggi è forse l’unico stato al mondo che sta costringendo altri paesi ad accettare le sue interpretazioni della storia e le sue narrazioni storiche. Quando questo non succede, esercita pressioni, formula minacce e mette a punto punizioni. Comprensibilmente l’approccio russo viene percepito in modo polemico nei paesi presi di mira. In primo luogo perché le ricerche storiche serie spesso non confermano i fatti nella versione proposta dal Cremlino, costruita su miti invece che su prove documentate e basate su eventi storici specifici.
In secondo luogo, perché in diversi paesi queste narrazioni contraddicono le dottrine storiche adottate ufficialmente dallo stato, come hanno sottolineato di recente i ministri degli esteri dei paesi dell’Europa centrale e orientale in una dichiarazione congiunta per l’anniversario della fine della seconda guerra mondiale in Europa.
Contro chi stiamo combattendo?
Fino a oggi Mosca ha condotto (o sta ancora conducendo) “guerre storiche” (o “guerre della memoria”) con sei paesi: gli stati baltici (Lituania, Lettonia ed Estonia), l’Ucraina, la Polonia e, più di recente, la Repubblica Ceca. Tra non molto in questa lista potrebbe finire anche la Bulgaria.
Tra questi paesi, quattro sono stati repubbliche dell’Unione Sovietica (i baltici e l’Ucraina) e due (tre con la Bulgaria) erano inclusi nel blocco sovietico, cioè facevano parte del Consiglio di mutua assistenza economica, Comecon, e del Patto di Varsavia.
Nei quarant’anni in cui è esistito, il blocco sovietico ha visto aprirsi al suo interno delle crepe che nella maggior parte dei casi Mosca ha cercato di riparare con interventi militari, in primo luogo per salvare i governi comunisti che aveva fatto insediare in quei paesi con l’obiettivo di mantenere il suo dominio geopolitico (Repubblica democratica tedesca 1953; Ungheria 1956; Cecoslovacchia 1968).
All’inizio degli anni novanta, dopo le rivoluzioni del 1989 nell’Europa centrale e orientale, il blocco comunista è crollato. A causa della sconfitta nella guerra fredda e del successivo collasso interno, l’Unione Sovietica ha cessato di esistere. La sua scomparsa viene percepita in modo diverso nel mondo. Per molti ha rappresentato la liberazione delle nazioni (compresa quella della nazione russa) dall’oppressione di un regime totalitario.
L’attuale classe dirigente russa, guidata da Vladimir Putin, considera tuttavia il crollo dell’Unione Sovietica “la più grande catastrofe geopolitica del secolo”. E lo stesso vale per la sua percezione della sconfitta dell’Urss nella guerra fredda.
Per il Cremlino è ancora difficile accettare il fatto che nel 1989, dopo aver sperimentato per quarant’anni l’ordine comunista importato dall’est, l’Europa centrale e orientale abbia preferito la democrazia liberale occidentale e abbia respinto l’autoritarismo di stampo orientale.
Il sistema autoritario che si è affermato in Russia dopo il breve intermezzo democratico rappresentato dalla presidenza di Boris Yeltsin, il consolidamento di questo regime e le avventure imperial-revanchiste affrontate da Mosca (in Georgia nel 2008 e in Ucraina nel 2014) hanno confermato quanto fossero nel giusto quelle forze sociali e politiche dell’Europa centrale che, oltre a scegliere la via della liberaldemocrazia, hanno orientato i propri paesi verso l’Unione europea e la Nato.
La più grande catastrofe geopolitica
Se il crollo dell’Unione Sovietica è stato “la più grande catastrofe geopolitica del secolo” (dichiarazione del presidente russo Putin ormai accettata nel discorso pubblico, politico e giornalistico in Russia), tutto ciò che è in qualche modo legato all’Urss e alla sua politica estera dal punto di vista del Cremlino ha automaticamente un significato positivo: per esempio la nascita dei regimi comunisti nell’Europa centrale e orientale dopo la seconda guerra mondiale, la creazione del “campo socialista” sotto l’egida di Mosca, e i tentativi di mosca di salvaguardare l’unità di questo blocco, anche con il ricorso alla forza.
Al contrario, tutto quello che è connesso all’indebolimento dell’Unione Sovietica e alla sua disintegrazione è percepito come negativo e dannoso: per esempio i tentativi di introdurre riforme autonome nei paesi socialisti, i movimenti civili e il dissenso, il crollo dei regimi comunisti alla fine degli anni ottanta, l’istituzione della democrazia e l’ingresso degli ex paesi socialisti nell’Unione europea e nella Nato.
Era inevitabile che la scelta del Cremlino di abbracciare l’eredità dell’Urss attraverso l’interpretazione sovietica degli eventi storici del ventesimo secolo – soprattutto nella sua seconda metà, cioè il periodo in cui è emerso il “campo socialista” –entrasse in conflitto con le narrazioni storiche radicalmente differenti emerse nell’Europa centrale e orientale dopo la caduta dei regimi comunisti.
Oggi questo scontro riguarda le circostanze che hanno condotto allo scoppio della seconda guerra mondiale, il modo in cui la guerra si è svolta, la sconfitta del nazismo e del fascismo, la divisione delle sfere di influenza tra occidente e Unione Sovietica, l’istituzione dei regimi comunisti e le altre conseguenze dell’ordine post-bellico in Europa.
Tutto questo fa da sfondo storico alle “guerre della memoria” che la Russia sta conducendo, ed è piuttosto comprensibile, se non addirittura logico, che in questi conflitti i nemici siano i paesi dell’Europa centrale e orientale. Agli occhi degli attuali dirigenti del Cremlino, questi paesi sono “fuggiti” a occidente, finendo così per “seppellire i resti” del piano elaborato negli anni trenta da Stalin, e sopravvissuto alla seconda guerra mondiale, per liberare l’Europa dal giogo capitalista, un piano che doveva essere accompagnato dall’espansione territoriale dell’Urss sull’intero continente europeo.
Un’attenta analisi delle dichiarazioni e delle azioni di politica estera dell’attuale classe dirigente russa, soprattutto alla luce dei precedenti eventi storici, ci fa concludere che in questo momento in Russia ci sia al potere una forza revanscista. Dal punto di vista geopolitico, questa forza è erede tanto dell’impero russo quanto dell’Urss di Stalin, entrambe entità statali caratterizzate da una forte spinta all’espansione territoriale esterna.
Questa forza autoritaria è ostile alla democrazia liberale, rifiuta il progetto dell’integrazione europea e considera l’occidente il suo nemico principale. E il suo scopo principale è ridurre il più possibile le conseguenze della sconfitta dell’Urss nella guerra fredda con l’occidente.
Verrebbe da chiedersi se per la Russia post-comunista non sarebbe più vantaggioso cercare di trarre il massimo dei benefici da questa sconfitta, impegnandosi in una cooperazione intensiva e in rapporti di partenariato, se non di vera e propria alleanza, in particolare con l’occidente.
Ma l’attuale leadership russa non sembra farsi domande di questo genere. Uno dei modi in cui è possibile, secondo il Cremlino, minimizzare la suddetta sconfitta è proprio scatenando delle “guerre della memoria” contro ex paesi “fratelli” o ex repubbliche dell’unione, alimentando discussioni e polemiche su singoli episodi e figure storiche determinate.
In quest’ottica la Russia ha avviato una controversia con la Polonia sulla responsabilità dello scoppio della seconda guerra mondiale ed è in polemica con
la Repubblica Ceca, colpevole di aver deciso di spostare il monumento al maresciallo Ivan Konev (il generale sovietico che guidò la liberazione di Praga dai nazisti nel 1945) dalla sua collocazione originaria. Sempre a Praga, Mosca si oppone alla realizzazione di una targa commemorativa in onore dei soldati del controverso Esercito di liberazione russo (guidato dal generale Andrej Vlasov, accusato da alcuni storici di collaborazionismo) morti durante l’insurrezione del 1945 contro i nazisti nella capitale ceca.
Queste “guerre della memoria” sono quindi dei riflessi della guerra fredda, ormai appartenente al passato. Il Cremlino sta cercando di approfittare di questa guerra persa, indirizzandola i suoi attacchi contro quelli che considera dei traditori, accusati di aver disertato per passare dalla parte del nemico.
Il circolo vizioso dell’eredità sovietica
Che aspetto abbia un laboratorio professionale in cui si scelgono i bersagli delle “guerre della memoria” russe ce lo raccontano le trascrizioni di una discussione tra cloni storici vicini al governo russo. La trascrizione è stata pubblicata dalla rivista Russia in global affairs all’inizio del 2020 con il titolo Historical memory - Another space where political tasks are solved (Memoria storica - Un altro spazio in cui si espletano compiti politici).
È una lettura strana. Durante la discussione i protagonisti parlano del modo in cui le narrazioni storiche possono essere usate per screditare uno stato a beneficio di un altro, e di quali specifiche interpretazioni possono essere impiegate per rafforzare i rapporti con determinati paesi.
Vale la pena citare la parte della discussione in cui i partecipanti riflettono su come si possa promuovere nel 2020, l’anno del settantacinquesimo anniversario della vittoria sul nazismo, la storia della seconda guerra mondiale in Europa. Si confrontano su come muoversi nel contesti dei rapporti attuali tra i singoli stati, con tutti i problemi e le sfumature del caso. Il professore associato della facoltà di storia dell’università statale di Mosca Fëdor Gaida spiega come promuovere l’interpretazione russo-sovietica dello scoppio della seconda guerra mondiale. Ecco la sua proposta: “In termini di costruzione concettuale, occorre lavorare sul contrasto (per svelarne le luci e le ombre) e spingere verso l’assurdo gli altri concetti (grazie a dio in questo caso non sarà necessario un grosso sforzo)”.
L’intervento prosegue così: “Ci sono i nemici, ci sono gli alleati. Abbiamo il capro espiatorio perfetto, cioè la Polonia. Se dobbiamo trovare un nemico comune che possiamo condividere con i burocrati dell’Unione europea, allora la Polonia è probabilmente il primo candidato. A mio parere si dovrebbe insistere sul ruolo della Polonia, cosa che stiamo già facendo. E sì, in questo il nostro alleato principale è Israele”.
Il livello di cinismo dello storico lascia senza parole. I problemi che attualmente caratterizzano i rapporti tra il governo polacco e l’Unione europea sono noti, così come le tensioni tra Polonia e Israele, provocate dalle critiche dello stato ebraico all’interpretazione della seconda guerra mondiale fatta propria da Varsavia.
Questi problemi hanno contenuti e dinamiche specifiche e non hanno niente a che fare con i rapporti di Polonia e Israele, e ovviamente dell’Unione europea, con la Russia.
Tuttavia, la cosa forse più sorprendente nella trascrizione della discussione non è nemmeno questo cinismo, quanto il cordone ombelicale mentale e ideologico che lega i suoi partecipanti alla narrazione sovietica, così dolorosamente familiare. Gli storici non si chiedono se sia venuto il momento di lasciar perdere tutte queste narrazioni “vittoriose” dai toni istericamente solenni che di fatto esaltano il regime sovietico e contraddicono la verità e la dimensione umana dell’eroismo, delle tragedie e dei crimini che la Russia e i suoi cittadini hanno vissuto.
Nel dibattito continuano a muoversi in un circolo vizioso di interpretazioni che, pur con le migliori intenzioni, non possono essere adattate al presente. Per non parlare del fatto che su queste basi è impossibile costruire un solido rapporto di collaborazione in Europa.
Tra le altre cose, questa discussione dimostra come l’attuale leadership russa non preveda alcun cambiamento nella sua lettura degli eventi storici più importanti del novecento. Questo significa che con ogni probabilità le “guerre della memoria” condotte dalla Russia contro i suoi ex satelliti, che oggi sono stati liberi e democratici dell’Europa centrale, sono destinate a continuare.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito su Visegrad Insight.
Il 19 giugno la rivista statunitense di politica estera The National Interest ha pubblicato un lungo saggio di Vladimir Putin sulla seconda guerra mondiale. Nelle trenta pagine del testo, intitolato “The real lessons of the 75th anniversary of world war II” (Le vere lezioni del 75° anniversario della seconda guerra mondiale), il presidente russo offre la sua interpretazione del conflitto, rivendicando il ruolo dell’Unione Sovietica come principale artefice della sconfitta della Germania nazista. Putin difende inoltre la scelta di Mosca di siglare nel 1939 l’intesa di non aggressione con Berlino, il cosiddetto patto Molotov-Ribbentrop, sostiene che “la responsabilità della tragedia sofferta dalla Polonia è esclusivamente della leadership polacca”, e difende l’annessione delle repubbliche baltiche, Estonia, Lettonia e Lituania. L’articolo si chiude con un appello alla cooperazione internazionale e con la proposta di un summit straordinario tra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (Russia, Cina, Francia, Stati Uniti e Regno Unito), un’iniziativa – scrive Putin – che servirebbe a riaffermare “i valori per cui i nostri padri e i nostri nonni hanno combattuto fianco a fianco” e per “trovare risposte comuni alla sfide attuali”.
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