È la parola in questi giorni più pronunciata, più temuta e più esibita, lanciata come un grido esaltatorio o un epiteto ricattatorio. Siamo in guerra, riconosciamolo. Siamo in guerra, ammettetelo. Dai discorsi dei leader feriti (e indeboliti) la parola rimbalza ai titoli dei giornali come una pallina impazzita e incontrollabile.

Fatta propria non solo dagli opinionisti che ci vorrebbero sempre sul fronte di un qualche decisivo conflitto ma da altri che hanno sempre vantato la loro moderazione. Il numero delle vittime, le parole dei massacratori, la dimensione del conflitto, le sue radici anche culturali o di civiltà sembrano non lasciare scampo. È una guerra. Non vogliamo ammetterlo, ci dicono, per cecità laicista o viltà pacifista. La stiamo già perdendo perché non vogliamo riconoscerla, perché il nostro relativismo indebolisce i valori in nome dei quali combattere e ci disarma.

Si può provare a decostruire questa narrazione? O almeno a prendere sul serio le parole che vengono pronunciate, a non lasciare che ci ammutoliscano con la loro potenza? Potremmo cominciare con qualche banalità chissà perché taciuta o dimenticata.

È guerra la parola alla quale si ricorre per automatismo, per povertà lessicale, per mancanza di fantasia

Non solo le guerre non sono scomparse dal nostro orizzonte (se non lo circoscriviamo in confini stretti, puramente egoistici) ma la stessa parola (presentata oggi come “un impronunciabile tabù”) è stata pronunciata un numero infinito di volte, nelle nostre decadi di pace. Per esempio non abbiano trovato un termine migliore per definire guerra seppure fredda il lungo conflitto combattuto nel cuore d’Europa dopo la seconda guerra mondiale. Un confronto armato ma non insanguinato: almeno nel nostro continente il numero di vittime è stato irrisorio rispetto ai macelli storici del passato o ad altri luoghi geografici del presente (sempre troppe le vittime, naturalmente; e tragico il prezzo che si è pagato in termini di diritti, benessere, cultura e vita. C’è bisogno di dirlo? Sì, in queste ore c’è purtroppo bisogno di dire anche questo).

Panico antimoderno e antidemocratico

Ma insomma, l’abbiamo chiamata guerra. Come qui da noi, nella pacifica Italia, abbiamo chiamato guerra la lotta alla mafia (centinaia di vittime, in effetti, e leggi speciali ai confini della nostra cultura dei diritti) e al terrorismo (nonostante fossero proprio i terroristi a pretendere questo riconoscimento, e fosse decisivo non concederlo). Per non parlare di altre occasioni in cui la parola è stata quotidianamente spesa fino all’usura. Non un tabù, insomma, semmai un totem in nome del quale combattere battaglie di ogni tipo, dimensione, intenzione.

Allora per cominciare evitiamo almeno che chi parla di guerra possa vantare l’ardimento verbale e anticonformista, come se violasse chissà quale interdetto. È guerra la parola alla quale si ricorre per automatismo o autocompiacimento (specie maschile, ma questo è un altro discorso che pure andrà fatto), per povertà lessicale e culturale, per mancanza di fantasia (non appaia futile, la formula: la fantasia, l’immaginazione sono armi politiche decisive, specie quando si deve combattere l’inaccettabile, o l’incomprensibile, come oggi sta accadendo).

Ma evitiamo soprattutto di attribuire al termine un connotato di coraggio che in realtà gli è largamente estraneo. Noi italiani abbiamo nella nostra storia un esempio formidabile che dovrebbe risuonare particolarmente significativo nell’anniversario della prima guerra mondiale. Gli intellettuali che allora rafforzarono gli argomenti interventisti (ossia nobilitarono le solide ragioni strutturali, economiche, imperiali della guerra) non lo fecero per coraggio ma per paura: avevano terrore di quello che con una formula un po’ astratta e angosciante definiamo “l’irrompere delle masse”, non riuscivano a comprendere e metabolizzare la modernità e la democrazia.

In qualche caso meno ipocrita la scelta della guerra per impedire la rivoluzione fu perfino apertamente rivendicata. Ma quello che fa più impressione rileggendo a cento anni di distanza i testi variamente bellicisti di scrittori, saggisti, giornalisti è il senso di sgomento e di impotenza di fronte ai cambiamenti e ai progressi del mondo, l’incapacità di capire, la paura di perdere un ruolo privilegiato. Un vero e proprio panico antimoderno e antidemocratico che cercò di riscattarsi (e camuffarsi) con il grido e il gesto eroico. Costò qualche milione di vittime, l’incoscienza di quegli intellettuali, e fu una prova non di coraggio ma di viltà: un bagno di sangue pur di non mettere in discussione idee e poteri, privilegi e professioni. La verità – insomma – è che erano dei fifoni.

Dietro l’invocazione della guerra risuona invece l’inclinazione a sospendere, revocare, indebolire proprio quei valori

Non è una prova di coraggio, dunque, questo proclamare la guerra. E nemmeno di coerenza rispetto agli adorati e minacciati valori. Sia chiaro: ritengo i nostri valori (non mi lancerò nell’impresa di definirli: diamo per scontato che si intende un grumo di cose che vanno dalla libertà di espressione ai diritti universali, delle donne e delle minoranze in particolare) l’obiettivo dell’attacco e la trincea sulla quale combattere (se posso cedere a una metafora essa stessa bellica).

Ma quei valori vanno difesi rafforzandoli ed esibendoli. Dietro l’invocazione della guerra risuona invece l’inclinazione a sospendere, revocare, indebolire proprio quei valori. Resistente traccia di un odio e un’intolleranza antica, probabilmente. Ma soprattutto un cedimento al nemico interno ed esterno che rischia paradossalmente di rendere inutile la battaglia, concedendo all’avversario proprio ciò che voleva cancellare in noi.

Un’invidia più o meno nascosta

Nell’irrisione che in queste ore capita di ascoltare contro la superficialità della “generazione Bataclan”, la frivolezza del modo di vita attaccato dai terroristi, il nichilismo che starebbe dietro certe scelte esistenziali e perfino musicali c’è l’eco di qualcosa di impronunciabile. Una sorta di ammirazione o perfino di invidia, più o meno nascosta, per altri modelli di vita, più sicuri di sé, per altre religioni, meno esitanti, per altre culture, meno relativiste.

Fino all’inconfessabile rispetto per un mondo dove, nella nostra proiezione, lo straniero è malvisto e la donna sta al posto suo. Se non altro perché la loro sicurezza e spregiudicatezza (ossia la loro violenza) comporterebbe una superiorità strategica, fino alla vittoria.

Può darsi che sia così, che la forza del più importante valore occidentale (l’autocritica) si trasformi in debolezza di fronte a culture e a religioni refrattarie al cambiamento, all’evoluzione di sé e all’accettazione dell’altro. Può darsi ma ne dubito non solo per ragioni storiche lontane (la sanguinaria intolleranza così faticosamente domata della nostra religione) ma anche più recenti.

Mi sbaglierò ma sento riecheggiare argomenti e profezie che hanno dominato la mia infanzia e giovinezza durante la guerra fredda. Le stesse categorie (loro sono sicuri di sé, se ne fregano dell’opinione pubblica, non hanno l’impaccio delle ritualità democratiche, si armano liberamente, se non cambiamo i nostri paradigmi vinceranno perché noi siamo incerti, non vogliamo ammettere la natura del conflitto, abbiamo paura delle armi e dell’idea di guerra, dubitiamo dei nostri valori ed esitiamo nell’esibirli). A volte perfino le stesse immagini (arriveranno a San Pietro, i cosacchi ad abbeverarsi, gli islamisti a farci esplodere tutti).

C’è poco da scherzare, naturalmente: il terrorismo contemporaneo, liquido e inafferrabile, è una minaccia terribile, forse senza precedenti.

Ma non posso fare a meno di ripensare a quanto, da ragazzo, quelle analisi così competenti e spaventose mi stupissero; ma come – pensavo – se siamo in tutti i sensi infinitamente più ricchi di loro? Se siamo mille volte più capaci di affrontare i cambiamenti, di adattarci e governarli? E se siamo, forse proprio per questo, enormemente più attraenti? (Migliaia di uomini e donne rischiando la vita saltavano i muri per venire qui, nella terra dell’incertezza, del relativismo, della debolezza, di quelli che avrebbero perso). Poi l’impero sovietico è finito come è finito – grazie alla nostra determinazione anche armata, certo, ma pure grazie al nostro modo pacifico e convincente di combatterla, quella battaglia – e da allora dubito di certi argomenti.

Finora di questa temuta conversione occidentale non c’è traccia

Perché l’inaccettabilità delle tesi alla Fallaci o alla Houellebecq – così popolari in questi giorni bui – non sta nell’individuazione della ferocia del nemico, nell’odio che può suscitare (in una certa misura deve suscitare, anche se ammiro chi colpito direttamente dice il vostro odio non mi avrà) e nella mobilitazione che deve provocare (anche se le guerre più o meno auspicate dalla Fallaci le abbiamo combattute tutte, con risultati pessimi).

Quella che appare sbagliata è la profezia, variamente declinata, che prevede una nostra resa, per debolezza, per leggerezza, per disattenzione o per viltà, ai valori altrui, in particolare a quelli attribuiti all’islam. Rifuggo profezie e profeti, se non altro per incapacità, e dunque non so cosa accadrà nel vortice dei cambiamenti demografici, economici, geopolitici, mentali in corso da decenni.

Ma finora di questa temuta conversione occidentale non c’è traccia. Nei tre lustri (lunghi e insanguinati) trascorsi dall’attacco alle torri gemelle che provocò quella rabbia e quell’orgoglio, non c’è società occidentale che pare arretrare e concedere agli islamisti qualcosa sul piano dei valori, delle fedi, dei comportamenti. Anzi, la loro pressione e la loro violenza genera una nuova consapevolezza, preziosa anche nelle sue ambiguità (i rimbalzi identitari, strumentali e aggressivi, per cui nessun partito islamico vincerà le elezioni in Francia ma Le Pen forse sì).

Se non fermeremo il terrore c’è poco da inorgoglirci per questo risultato. Ma per quanto limitata e forse provvisoria questa verità va detta. Le nostre parole chiave –pace, guerra, valori – suonerebbero meno sorde e banali, meno ricattatorie e violente.

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