Spesso abbiamo la tendenza a elogiare la capacità del regime cinese di fare piani a lungo termine, e in effetti è vero. Ma c’è un ambito in cui la Cina si è clamorosamente sbagliata, ed è quello della demografia. La decisione presa il 31 maggio dall’ufficio politico del Partito comunista cinese di autorizzare le coppie ad avere tre figli ne è il riflesso.
La politica delle nascite ha vissuto evoluzioni radicali nel corso del tempo. Mao vedeva nella popolazione numerosa uno dei punti di forza della Cina, innanzitutto sul piano militare. È grazie ai numeri che Mao ha combattuto contro gli americani durante la guerra di Corea, ed è al leader cinese che è stata attribuita l’idea secondo cui in caso di guerra nucleare la Cina avrebbe potuto perdere 300 milioni di abitanti restando comunque il paese più popoloso del mondo.
Tre anni dopo la morte di Mao, nel 1976, Deng Xiaoping ha operato una svolta a 180 gradi, introducendo la politica del figlio unico. Per trentacinque anni questa misura è stata imposta in modo autoritario, con aborti e sterilizzazioni forzate oltre a punizioni severe. Leggendo il romanzo Rane del premio Nobel Mo Yan si può comprendere il trauma causato da questa politica in una popolazione intera. La misura è stata cancellata soltanto nel 2015, quando ormai da anni i demografi avvertivano il Partito comunista del rischio che la Cina diventasse “vecchia prima di essere ricca”, secondo una formula molto diffusa.
La generazione del figlio unico, più individualista, non ha più il desiderio di creare le famiglie numerose che un tempo erano l’orgoglio dei cinesi
Nel 2015 è arrivato il primo ammorbidimento: le coppie sono state autorizzate ad avere un secondo figlio. Ma laddove la generazione precedente aveva ardentemente desiderato creare famiglie più numerose, quella che è cresciuta con la politica del figlio unico non ne aveva più alcuna intenzione.
La politica del secondo figlio ha dunque avuto un impatto relativo sulla demografia cinese. Da questo insuccesso deriva la decisione, presa il 31 maggio, di alleggerire ulteriormente la regola, senza però abolirla.
Nel frattempo sono stati resi pubblici i risultati del censimento decennale condotto nel 2020. Malgrado gli 1,4 miliardi di abitanti, la Cina ha registrato l’aumento di popolazione più debole degli ultimi decenni, con una media di 1,3 figli per donna, una delle più basse del mondo. Eppure il 31 maggio, in concomitanza con l’annuncio della riforma, nessuno ha pensato che le cose possano cambiare in modo significativo.
Il cambiamento, in effetti, sarà al massimo marginale, per motivi culturali ma anche economici. La generazione del figlio unico, più individualista, non ha più il desiderio di creare le famiglie numerose che un tempo erano l’orgoglio dei cinesi. I limiti economici attuali, tra l’altro, sono particolarmente forti in un paese che ha una politica sociale ancora in fase embrionale.
La struttura familiare è riassunta dalla formula 4-2-1: quattro nonni, due genitori e un figlio. I nonni, senza pensione, sono a carico dei loro discendenti, che non possono permettersi di avere più di un figlio. Inoltre il mercato immobiliare e il costo della vita nelle grandi città sono proibitivi, e le coppie si scontrano con la mancanza di strutture di sostegno.
Il potere cinese non aveva previsto questa crisi demografica che rischia di costare caro all’economia, creando un reale problema di gestione degli anziani nei prossimi due decenni. Siamo davanti a un chiaro errore di pianificazione. Il colmo per un paese comunista.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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