Cosa ci facevano di recente in Vietnam i rappresentanti di decine di grandi aziende statunitensi? Qualche giorno prima era stato il Messico a srotolare il tappeto rosso davanti agli imprenditori stranieri con base in Cina. Ancora un po’ di tempo prima, Foxconn, il subappaltatore taiwanese della Apple, aveva concordato un investimento nello stato indiano del Telangana per la creazione di centomila posti di lavoro. Avete letto bene, centomila.
Questi tre esempi hanno un punto in comune che avrete senz’altro intuito: la ricerca frenetica di sbocchi di produzione al di fuori della Cina.
Nel corso degli ultimi 25 anni la Cina è stata “la fabbrica del mondo”, ovvero il paese dove sono stati prodotti i beni di cui il resto del pianeta aveva bisogno. La piattaforma online Alibaba, del miliardario Jack Ma, si è basata su un principio semplice: se sei un industriale e cerchi cuscinetti a sfera economici o vuoi far produrre a costi ridotti calzini o computer, Alibaba troverà la soluzione nella giungla delle fabbriche di Shenzhen o Dongguan, nel sud della Cina. Questo meccanismo è tuttora in corso, ma la marcia indietro degli investitori è chiaramente innescata.
La battaglia dei costi
La Cina è ancora la fabbrica del mondo in diversi ambiti, e nel 2021 ha rappresentato il 31 per cento della produzione industriale mondiale. Si tratta di una percentuale colossale. Ma c’è un dato che evidenzia una tendenza diversa: l’anno scorso gli investimenti stranieri in Cina sono calati del 40 per cento. Certo, è stata un’annata segnata dal covid-19, ma resta il fatto che la Cina non tornerà al flusso di investimenti degli ultimi due decenni.
I motivi di questa evoluzione sono molteplici, a cominciare dall’aumento dei costi di produzione in Cina. Uno studio recente evidenzia l’evoluzione del costo del lavoro in Asia: la retribuzione oraria in Cina è salita vertiginosamente e oggi è il triplo o il quadruplo rispetto al Vietnam, alla Malaysia e all’India. Le multinazionali, si sa, premiano il miglior offerente, e la Cina, nella sua corsa allo sviluppo, ha perso la battaglia dei costi.
È un’occasione per l’India, per il Vietnam e per tutti i paesi che oggi possono presentarsi come alternative alla Cina
Una seconda causa del fenomeno è di natura geopolitica. La guerra fredda tra Cina e Stati Uniti ha un effetto palpabile sulle aziende, così come l’inasprimento della politica interna cinese, gli eccessi della strategia zero covid o ancora la presa di coscienza del rischio politico dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.
Questa tendenza crea un’occasione per l’India, per il Vietnam e per tutti i paesi che oggi possono presentarsi come alternative alla Cina e attraversano una fase di crescita rapida. Nel caso del Vietnam il regime non è meno comunista né più rispettoso delle libertà rispetto a quello di Pechino, ma quanto meno si tiene a distanza dalla Cina e coltiva buone relazioni con Washington.
Come già accaduto all’epoca della prima guerra fredda, quella tra l’occidente e l’Unione Sovietica, anche oggi con gli alleati si è molto più tolleranti che con gli avversari. Il comunismo vietnamita o l’inquietante nazionalismo indù di Narendra Modi in India non impediscono di fare affari con la benedizione degli Stati Uniti. È un comportamento tanto cinico quanto classico. In ogni caso stiamo assistendo a una svolta nella globalizzazione, che al ritmo attuale avrà tutto un altro aspetto tra qualche anno.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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