Il dibattito sul disegno di legge Cirinnà si prolunga all’infinito, tra canguri abbattuti e mandrie di emendamenti. Uno dei ritornelli è: “Si parla tanto degli adulti, ma non dimentichiamo i bambini!”. Già: che ne è dei bambini?

È vero che se ne parla poco. Forse perché anche chi pensa (contro l’evidenza scientifica) che crescano male con genitori omosessuali, ha poi difficoltà a spiegare che crescerebbero meglio con genitori omosessuali che non hanno alcun dovere legale verso di loro.

Una cosa è certa: i figli delle coppie lesbiche e gay sanno benissimo di essere al centro di un dibattito pubblico. Troppi servizi, troppi titoli, troppe interviste per non accorgersene. E poi in televisione ci sono proprio le loro mamme, o i papà, o le “zie” o gli “zii”. In qualche caso i bambini stessi.

I genitori, intanto, gli raccontano quello che sta succedendo.

Lo fanno perché è inevitabile, e allora meglio farlo in casa propria prima che lo faccia qualcun altro là fuori (magari male), oppure (peggio) gliene parlino i mezzi d’informazione, con le loro semplificazioni d’effetto. Del resto le famiglie arcobaleno sono abituate alla trasparenza. Sulle faccende di ovetti e semini, questi bambini danno lezioni ai loro coetanei.

Perché non lo chiedono a me, di cosa ho bisogno? Se io sto bene o no, lo sanno loro?

Ma come se le vivono, queste settimane?

I più grandi, già (pre)adolescenti, vivono in un mondo loro. Le preoccupazioni dei grandi non li toccano più di tanto. Caterina (tutti i nomi sono di fantasia) non vede l’ora che sia finita, che le sue mamme smettano di arrabbiarsi e di parlare sempre delle stesse cose. Si spazientisce con la giornalista venuta a raccontare la sua famiglia: “Ma che cosa devo dire ancora a questa? Ancora non lo sanno come viviamo?”.

Ma l’impazienza è rivolta soprattutto contro gli oppositori del ddl Cirinnà, considerati dei poveracci con idee antiquate. Francesca vede in tv il Family day e si stupisce: “Ma tutta questa gente non ha di meglio da fare?”. Sente dire in tv che i bambini hanno bisogno di una madre e di un padre: “Perché non lo chiedono a me, di cosa ho bisogno? Se io sto bene o no, lo sanno loro?”.

Quando decidono di confrontarsi tra loro, hanno le idee chiare. “Facciamo qualcosa noi per convincerli”, propone Livia, “la legge è per noi, e se la chiediamo noi magari la passano”. Tutti fanno eco: “Speriamo che passi”. E se Angelica si preoccupa (“È normale avere paura, ma dobbiamo essere forti”), gli altri ribattono: “Deve passare, perché è una legge giusta”.

Vivono circondati da famiglie con un papà e una mamma, ma si frequentano tra loro: sono un gruppo solidale. Conoscono da anni gli effetti concreti del mancato riconoscimento: le deleghe umilianti, le separazioni catastrofiche. Conoscono le manifestazioni, le interviste, le marce. Si sentono partecipi. “Con tutto quello che abbiamo fatto, la legge ce la meritiamo”, dice Myriam.

I bambini sentono minacciata la loro famiglia: per loro è ancora tutto

Hanno una capacità di stupirsi che a noi adulti manca. Mattia, dieci anni, non capisce davvero “cosa cambia se si è innamorati di un maschio o di una femmina”. Quando gli è stata spiegata la stepchild adoption, è rimasto di stucco: “Ma perché Paola dovrebbe adottarmi? Sono già suo figlio!”.

Basterebbe, ha concluso, “dire semplicemente agli altri genitori che sono vostro figlio”. Ma adesso ogni volta che sente qualcuno parlare di unioni civili chiede subito: “È a favore della stepchild adoption o no?”.

Della stepchild però gli piace il nome. A differenza dei nostri senatori, gli piace pronunciarlo. Francesca invece non ama l’espressione “unioni civili”. “Matrimonio” è una parola decisamente più suggestiva.

Per i bambini più piccoli, dagli otto anni in giù, è un’altra storia.

Nelle manifestazioni del 23 gennaio a sostegno del ddl Cirinnà hanno trovato tante famiglie etero e tanti compagni di scuola, e questo li ha rafforzati. Ma non capiscono la lotta politica. La sera del 23, Filippo ha chiesto alle sue mamme: “Allora? Il giudice è venuto? Ha cambiato la legge?”.

Doloroso e inspiegabile

Sentono minacciata la loro famiglia: per loro è ancora tutto. Si mostrano affettuosi, vogliono partecipare e rassicurare i genitori, ma in realtà sono loro l’anello debole.

I genitori li proteggono. Cercano di portare le unioni civili su un piano di concretezza – “potremo darvi tutti e due i cognomi” – ma tacciono sulla questione della filiazione. “Abbiamo volutamente omesso di sottolineare che una mamma per la legge italiana vale meno dell’altra, anzi non vale niente”, racconta Serena, “perché questo è troppo doloroso e sinceramente inspiegabile a tuo figlio”.

Non sempre è possibile farlo. Dario dice alla sua mamma non legale: “Insomma, sei come una baby sitter? E quando cresco te ne vai?”. Pietro da qualche tempo ha cominciato a bestemmiare in classe: “Se parlano male dei gay, che ci sono, io parlo male di dio, che non esiste neanche!”.

I papà e le mamme scherzano, cambiano argomento, spengono la tv. Ma intanto Massimo sente la tensione nell’aria, sbotta, si agita, non ne può più. Anche Martina è nervosa. Un giorno è tornata a casa da scuola dicendo: “Il maestro di teatro ci ha fatto scrivere su un foglietto le nostre paure. Io ho scritto che ho paura di perdere la mia famiglia”. Ha degli incubi in cui la casa crolla, si aprono grandi crepe nei muri, lei cade giù da una finestra.

Per fortuna una delle mamme la afferra al volo. È quella che per lo stato non esiste.

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