Una delle promesse implicite nell’avventura di Liberato era la sparizione: a differenza di altri artisti anonimi, Liberato a un certo punto sarebbe scomparso, e il suo nome sarebbe stato associato solo a qualche concerto, una decina di video e di canzoni. Questa progressiva sparizione non è avvenuta nella maniera che ci si aspettava – oggi Liberato è sparito soprattutto da un orizzonte d’interesse e di attesa, ma continua a produrre musica – e non è arrivata una materializzazione che potesse rinfocolare il desiderio nei suoi confronti, rivelando la sua identità in un miracolo musicale da san Gennaro.

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Il 9 maggio Liberato ha fatto uscire il nuovo album Liberato II. La copertina ricorda un tatuaggio sbiadito, e stupisce la scelta di una rosa in mano, come a rimarcare che non ha senso aspettarsi una simbologia diversa dal suo mondo, e che il sentimento può sopravvivere a ogni reiterazione. Ma è davvero così?

Nel romanzo Museo animale Carlos Fonseca scrive: “Il modo migliore di evitare un inizio era imitarne uno precedente. Quella ripetizione inaugurale era applicabile a qualsiasi cosa”. Sembra il commento più preciso che si possa fare su Liberato II dopo il suo primo inizio, quello sì effervescente e capace di grattare i nervi con suoni più melodici e dialettali. Liberato adesso somiglia proprio ai cantanti tradizionali da cui è partito con affetto, intuizione e sfida: figure che non sono sparite, ma restano ubique in un certo paesaggio sonoro e sentimentale napoletano, facendosi però lontane. Un esito strano e malinconico, somigliare così tanto a qualcosa che si voleva reinventare. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1460 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati