L’impressione che sarà una stagione molto britannica negli ascolti viene confermata non solo dal clima avventizio legato al comeback tour degli Oasis la prossima estate o al riciclaggio di tante forme del pop inglese nell’ultimo disco dei Fontaines D.C., decisi a mettere insieme i Cure e la musica jangle vestendosi come i Prodigy, ma anche dal debutto dei nostrani Cosmic Room 99, con un disco che si chiama proprio come loro e deve il nome a un progetto segreto della Nasa e alla numerologia, in cui il 99 sta per il dono dell’amore universale. C’è qualcosa di enciclopedico nella scaletta del disco, che spazia dal lassismo cosmologico di band come gli Spiritualized, richiamando però i bassi teutonici del post-punk, tanto da farne una specie di saggio antologico di cosa si è veramente fatto nel Regno Unito tra fine anni settanta e gli anni novanta, e l’effetto di questa generosità è inevitabile.
Mancanza, voglia di essere lì, di resuscitare sentimenti di coerenza e di opposizione esistenziale all’interno di un’operazione musicale ed emotiva che la band gestisce con molto rispetto e anche una certa freschezza, senza scimmiottamenti o inutili derivazioni che generano solo stanchezza. Quando ero bambina, c’era una serie statunitense intitolata Blue jeans a cui ero molto affezionata. Nel mezzo degli anni ottanta, parlava di un ragazzino che assisteva al sessantotto, e all’esplosione del mondo. Ci ho ripensato ascoltando l’esordio dei Cosmic Room 99: a volte l’eredità culturale è una cosa solo bella, e solo utile, ed è il vero wonderwall. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1581 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati