Amadeus è l’unico statista che l’Italia abbia sugli scaffali. Ha trasformato il festival di Sanremo in una repubblica indipendente con calendario proprio e separazione dei poteri (sala stampa, web e demoscopica), ha messo a tacere ogni opposizione senza ricorrere a velleità autoritarie (Orbán prenda esempio) e realizzato tangibili riforme costituzionali: con una disinvoltura che manco Cavour, l’ex dj ha modificato un comma da prima repubblica che ammetteva in gara solo brani scritti in lingua italiana. Con un tratto di penna, Amadeus non solo ha riconosciuto lo ius soli a Geolier (e al suo contestato napoletano) e in più, valorizzando la territorialità canora, ha reso giustizia alle autonomie differenziate, qui pensate per unire e non per frammentare la nazione. Nazione che torna a essere patria fin dalla prima conferenza stampa, dove il nostro ha intonato con spensierata solennità Bella ciao, trascinando nel canto mezza sala stampa. Amadeus è leader dialogante – l’Unione europea guarda all’Ariston per la vertenza agricola – e riconoscente: ora è lui a tendere la mano all’amico e spin doctor Fiorello. Il rischio è che nell’inquietudine del paese anche Amadeus sia scalzato da fremiti populisti, da manovre di palazzo, dalla nevrosi del nuovo che sciuperebbe a noi pubblico il progetto di morire democristiani. Per questo non mi sorprenderebbe se si arrivasse quanto prima all’elezione diretta del conduttore. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1549 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati