Tempo fa un’amica mi ha ricordato come la prima persona possa essere un peso per chi abita la marginalità: l’io ricorsivo di un’esperienza traumatica inghiotte le storie che eludono il vincolo biografico, l’interesse a raccontare storie che sviano da se stessi. In questo bell’esordio Piccolo ricorre alla terza persona per seguire la storia di Senzanome, una bambina con i capelli crespi che vive con una madre dai denti marci che la picchia e una sorella con gli occhi azzurri la cui storia non ci è data sapere perché ci sono vite che non tocca a noi raccontare. “Date due persone con presupposti identici alla partenza – il patrimonio con il quale si nasce, esattamente lo stesso padre e la stessa madre e la stessa povertà nella stessa casa – chi tra le due ha più probabilità di partecipare al meglio al gioco della vita, e perché?”, si chiede a un certo punto la protagonista. Nel tentativo di rispondere, attraverso scorci di vita raccontati in 253 post-it, il romanzo segue la bambina che non si perdona diventare la ragazza che parla poco, poi la giovane donna, e infine la donna che ha paura della notte. Nessuno dei personaggi che si muovono per questo libro è chiamato per nome, tutti sono identificati con epiteti (il ragazzo-uomo, il bambino con la faccia d’angelo, l’uomo burlone e la donna gentile) che danno il tempo a una narrazione che ha il ritmo veloce del racconto orale. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1488 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati