Questo breve romanzo comincia con l’impegno di una coppia riversato in qualcosa che si ritiene eterno: la casa, non l’amore. “Basta una telecamera, un sospetto, un supporto rimasto vuoto, un vuoto qualsiasi lasciato in un angolo e tutto si disfa, anche i mutui, ottusi e ambiziosi nel loro voler essere duraturi”. L’esordio di Fabrizio Bonetto ricostruisce gli scarti di un amore infranto, a sua volta ritenuto eterno, raccolti in capitoli come nelle sale di un museo. È un museo-libro che potrebbe piacere a mia madre. Io, nonostante il ritmo gradevolmente soffice e la prosa lineare, resto perplessa per il sottotono vagamente moraleggiante. “Arriva un’erezione, desiderio grato ad altro desiderio già finalizzato in precedenza. In questo momento so che porterai a termine la gravidanza, che niente ti fermerà, sei madre che prepara la nuova tana per un cucciolo che arriverà al traguardo. Facciamo l’amore. Ti vorrei madre cento volte”. L’idea di cosa sono un marito, una moglie, una famiglia è figlia del proprio tempo, e questo romanzo che parla di tutte queste figure è il prodotto di una generazione passata. Racconta uno spaccato di vita che vedo e riconosco, ma sento distante. Una volta qualcuno mi ha detto che un amore infranto è come un lutto. Un po’ drammatico. Quella stessa teatralità (l’intera trama si sviluppa in un salotto) l’ho ritrovata in questo libro. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1548 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati