Alcuni l’hanno presentata come un importante passo indietro del regime islamico in Iran. Una concessione impensabile appena tre mesi fa, prima dell’inizio delle proteste senza precedenti che stanno agitando il paese. Altri la considerano un espediente del regime, che finge di allentare la corda accogliendo una rivendicazione essenziale dei manifestanti subito prima dello sciopero generale indetto dal 5 al 7 dicembre.
La sera del 3 dicembre il procuratore generale iraniano, Mohammad Jafar Montazeri, ha annunciato l’abolizione della polizia religiosa. Questa unità “non ha nulla a che vedere con il potere giudiziario, ed è stata abolita da quelli che l’hanno creata”, ha detto Montazeri all’agenzia di stampa iraniana Isna, senza precisare in che modo sarà soppressa.
La decisione è altamente simbolica: passata attraverso diverse forme e definizioni, la polizia religiosa è nata nei primi anni dell’instaurazione della Repubblica islamica (1979). Per come è strutturata oggi, è un prodotto del presidente ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad voluto per “diffondere la cultura del pudore e dell’hijab”, il velo che copre la testa.
È stata la polizia religiosa ad arrestare il 13 settembre Mahsa Jina Amini, accusata d’indossare male il velo. La morte della giovane curda tre giorni dopo ha scatenato l’ondata di proteste. Da allora molte iraniane rifiutano il velo, diventato simbolo del controllo esercitato dal potere religioso sulle donne e sulla società. Centinaia di persone sono state uccise dalle forze dell’ordine in quasi tre mesi: secondo l’agenzia di stampa militante Hrana il bilancio è di 470 morti, di cui 64 minorenni. Alcuni osservatori sostengono che l’annuncio di Montazeri riveli la fragilità del regime, incapace – nonostante la repressione – di fermare la contestazione. Il procuratore ha anche segnalato che “il parlamento e il potere giudiziario stanno lavorando” a una revisione della legge del 1983 sull’obbligo del velo. “È difficile non interpretare queste dichiarazioni come una concessione del regime ai manifestanti”, dice Ali Alfoneh, ricercatore all’Arab Gulf states institute di Washington. “I politici non hanno il coraggio di modificare la legge sull’hijab, ma il regime smetterà progressivamente di applicarla”.
Nessun cambiamento
In realtà vari fattori ridimensionano questo presunto gesto di distensione. Innanzitutto, nessun altro responsabile iraniano ha confermato lo scioglimento della polizia religiosa, che può essere deciso solo dal Consiglio supremo della rivoluzione culturale, mentre i mezzi d’informazione di stato hanno precisato che il procuratore generale non controlla le forze di polizia. Diverse fonti insistono sul fatto che l’annuncio “non indica cambiamenti nella legge iraniana sull’hijab o nella sua applicazione”, sottolinea Ali Alfoneh.
Le autorità iraniane potrebbero “trovare nuovi strumenti per imporre l’hijab, magari in modo meno aggressivo, confermando la loro fermezza sull’aspetto giuridico della questione”, afferma Abdolrasool Divsallar, che insegna all’università Cattolica di Milano ed è ricercatore al Middle East institute di Washington. Ormai invisibile, la polizia religiosa ha interrotto i pattugliamenti nelle strade già nelle prime settimane della rivolta.
L’annuncio di Montazeri ha anticipato di poco i tre giorni di sciopero generale proclamato dai sindacati. È evidente che il tentativo di Teheran è dare alla popolazione meno motivi per mobilitarsi, ma gli osservatori dubitano dell’efficacia di questa strategia. “I fattori che fanno scendere la gente in piazza – il malgoverno, la repressione, i problemi economici e la corruzione – non sono cambiati ”, nota Divsallar. Anche se l’eliminazione dell’obbligo del velo e lo scioglimento della polizia religiosa fossero confermati, non basterebbero ad accontentare gli iraniani. Ormai la popolazione chiede la libertà a tutti i livelli, senza timore della repressione. Il giorno dopo l’annuncio del procuratore, Teheran ha eseguito le condanne a morte di quattro cittadini accusati di aver collaborato con il Mossad, il servizio segreto israeliano. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1490 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati