Da quindici anni vivo in una grande casa condivisa. Per molto tempo non è stato nulla di insolito: durante gli studi e gli anni di formazione la maggior parte delle mie amiche e dei miei amici viveva così. Poi ho compiuto trent’anni e la faccenda è diventata sempre più strana agli occhi degli altri. “Davvero vivi ancora lì?”, mi chiedevano spesso con incredulità. A questo faceva seguito il sospetto che avessi problemi di soldi (“Non ti puoi permettere una casa da sola?”) o che in qualche modo non fossi cresciuta (“Non sai stare da sola?”) o che fossi contraria alla famiglia (“Non ti piacciono i bambini?”). Nessuno sembrava considerare l’idea che vivere anche dopo i trent’anni in una comunità di amici potesse essere una scelta. Alla mia età di solito si vive da soli o in coppia, tutto il resto può essere solo un ripiego. E forse potrei riderci sopra, ma la questione mi sembra tremendamente seria.

È assurdo che io senta il bisogno di doverlo scrivere qui: non ho nulla contro i bambini e le famiglie, davvero. Semplicemente non sono mai arrivata al punto di voler rinuciare alle mie amicizie per questo. Sono le relazioni più importanti della mia vita, le persone con cui trascorro la maggior parte del tempo, e molte sono più simili a un matrimonio che a un flirt. Nella mia esperienza sono i rapporti più capaci di durare e di resistere alle crisi, forse perché le amicizie sono poligame per natura e non prevedono che tutte le aspettative e i bisogni siano soddisfatti da una sola persona. Inoltre nella nostra cultura mancano storie su come dovrebbero essere le amicizie tra adulti e quindi non si devono seguire schemi precostituiti.

La domanda “non c’è di più tra di voi?” rivela una gerarchia nelle relazioni

Le amicizie sfidano le norme sociali, possono descrivere una comunità di due o di cinquanta persone e comprendere diversi tipi di legami, dai più liberi ai più impegnati. In questi rapporti che sfuggono alle istituzioni e alle regolamentazioni, ci sono una bellezza e una libertà particolari.

Definizioni che mancano

Le amicizie tra adulti, però, hanno un problema di rappresentazione e di riconoscimento. La domanda “non c’è qualcosa di più tra di voi?” rivela la gerarchizzazione: le amicizie sono considerate come qualcosa di meno rispetto alle relazioni sentimentali e non come rapporti completamente diversi. Non esiste neanche una parola per descrivere il dolore che si prova quando un’amicizia è in crisi o finisce. Ho deciso di chiamarla “pena d’amicizia”. Per durata e intensità può essere simile a quella d’amore, ma la sua accettazione sociale è completamente diversa. Nel caso delle pene d’amore si attiva subito una vera e propria macchina per superare la crisi: si fanno discorsi per risolvere i conflitti o affontare la separazione, gli amici si presentano a casa con una birra consolatoria, e c’è anche l’0pzione della terapia di coppia. Per le pene d’amicizia non c’è niente di tutto questo.

Negli ultimi anni ho perso tante amicizie. In parte a causa della pandemia e della sua gestione politica, che ha indebolito le relazioni amicali. Quando non si potevano incontrare più di cinque persone contemporaneamente, nella casa in cui viviamo in sei facevamo battute su chi dovesse andarsene o chi non potesse più entrare in cucina insieme agli altri, chiedendoci come avremmo fatto a mantenere le altre nostre relazioni. Le amicizie non sono state considerate e in molti ne hanno risentito: nei sondaggi il 30 per cento degli intervistati ha dichiarato che durante la pandemia le amicizie si sono allentate o del tutto interrotte. La lingua inglese ha un’espressione per questo fenomeno: friendship recession, recessione dell’amicizia. Dato che non amo descrivere le relazioni sociali con il vocabolario economico, preferisco tradurla con “perdita dell’amicizia”.

Bisogna aggiungere che le mie frequenti pene d’amicizia sono dovute anche all’età: intorno ai trent’anni molte e molti sono andati a vivere con il partner o hanno messo su famiglia e, nella maggior parte dei casi, si sono silenziosamente defilati trasformando delle amicizie strette in semplici conoscenze o, anche qui manca la parola, ex amicizie.

Invecchiare insieme

D’altra parte durante la pandemia abbiamo provato una sorprendente gioia amicale, perché chi è rimasto vicino ha scelto con ancora più decisione di esserci per l’altro. Alcuni discorsi tra noi sono sembrati quasi promesse di fidanzamento: sì, vogliamo vivere insieme a lungo. Sì, anche se avremo dei figli. Sì, ci prenderemo cura l’uno dell’altro in caso di malattia. Sì, vogliamo invecchiare insieme.

È soprattutto per queste relazioni, orientate al lungo periodo e che non si sottraggono al lavoro di cura, che la mancanza di un riconoscimento e di un sostegno è un problema. Negli ospedali le amicizie non hanno posto. Le sedute di coppia sono molto diffuse, ma non ho mai sentito dire di amici che vanno insieme da un terapeuta. Le città sono da tempo ripartite in appartamenti da una fino a tre camere da letto e non c’è quasi più spazio per la vita in comunità più grandi. Non ci si può aspettare comprensione da un datore di lavoro se si va a prendere a scuola un bambino di cui non siamo genitori. Come amici, non possiamo beneficiare del regime fiscale congiunto. E chiunque erediti qualcosa da un amico deve fare i conti con uno sconto fiscale molto inferiore e una tassa più alta rispetto ai familiari.

Da tempo la Germania riconosce il dovere di prendersi cura reciprocamente tra adulti anche al di là del matrimonio, ma a questo non corrispondono dei diritti. Non è giusto. Dal sistema sanitario alla pianificazione urbana fino al diritto di successione, è chiaro che la famiglia ha un ministero, l’amicizia no. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1565 di Internazionale, a pagina 108. Compra questo numero | Abbonati