Flavia Piccinni, Quel fiume è la notte
Fandango, 234 pagine, 16,50 euro

Dobbiamo il concetto di orientalismo a Edward Said che con questo termine definiva i luoghi comuni sul mondo non occidentale tipici del punto di vista coloniale. Dunque, quando in un romanzo italiano incontriamo un paese in via di sviluppo sporco, miserabile ma anche misterioso e spirituale, dobbiamo chiederci se non c’entri un po’ la favola orientalista. Questo romanzo eloquente, ma troppo spesso provinciale, racconta le difficili scelte di vita dell’italiana Lea. La storia si svolge in India, dove la donna è fuggita dopo un aborto, paralizzata dal rimorso e dalla depressione.

Da Jodhpur ad Agra, fino a Varanasi, sul fiume Gange, Lea barcolla tra fantasia e nausea davanti alla miseria altrui. C’è l’India che “sogna da sempre… il misticismo, la reincarnazione, il senso delle cose”, dove gli abitanti “parlottano in un modo incomprensibile e musicale” e c’è l’India in cui tassisti, albergatori e bambini sono attenti alla mancia e parlano bene inglese. A volte l’autrice sembra riconoscere che il punto di vista di Lea è limitato, che l’India è più complessa di come la vede il suo personaggio. Scegliendo di raccontare tutto con la voce della donna, non ha strumenti per introdurre un’altra prospettiva. Un alter ego indiano? Perché no?

Questo articolo è stato pubblicato il 29 aprile 2016 a pagina 84 di Internazionale, nella rubrica Italieni. Compra questo numero | Abbonati

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