A volte la diplomazia non riesce a gestire più di una crisi contemporaneamente. Oggi l’Unione europea mantiene lo sguardo fisso sul suo “fianco orientale”, verso la Bielorussia e l’Ucraina (che meritano entrambe la sua attenzione), ma farebbe bene a interessarsi anche a un’area più vicina al “fianco sud”, e più precisamente alla Bosnia Erzegovina, nel cuore del Balcani.

In questo stato nato trent’anni fa dall’implosione della Jugoslavia si moltiplicano i segnali d’allarme. La Bosnia, infatti, minaccia di sprofondare in una nuova crisi e in un crollo totale. Come dicevamo all’epoca dell’assedio di Sarajevo, negli anni novanta, tutto questo accade a due ore da Parigi e ha conseguenze per il resto del continente.

Il destino di ognuno degli stati nati dalla guerra in Jugoslavia, una tragedia europea, è molto vario: Slovenia e Croazia sono entrate a far parte dell’Unione, mentre gli altri cinque stati (contando anche il Kosovo, sei se aggiungiamo un’Albania dalla storia peculiare) sono in una terra di nessuno politica, tra instabilità e aspirazioni.

In questa complessità storica e umana, la Bosnia Erzegovina è un caso a parte. Il paese costituisce in sé una piccola Jugoslavia – con le componenti serba, croata e musulmana – e ne riproduce le stesse linee di frattura.

Dopo gli accordi di Dayton, negoziati nel 1995 sotto l’egida degli Stati Uniti per mettere fine alla guerra più crudele vissuta dall’Europa dopo il 1945, la Bosnia ha mantenuto un equilibrio fragile che oggi è minacciato.

La minaccia è quella del collasso di uno stato basato su due entità: da un lato la parte serba (Republika Srpska), dall’altro la federazione croato-musulmana. Il leader serbo di Bosnia, Milorad Dodik, avanza da anni rivendicazioni nazionaliste. Stavolta, però, è passato all’azione.

A ottobre Dodik ha fatto votare dal parlamento dell’entità serba alcune leggi che sanciscono una secessione de facto, creando un esercito serbo e ritirando i serbi da diverse istituzioni comuni. Se Dodik si spingerà oltre, molti osservatori temono che la secessione possa riaccendere un conflitto che non si è mai concluso e che trent’anni di coabitazione non hanno fatto dimenticare. Qui non ci sarà un “divorzio di velluto”, come accaduto in Cecoslovacchia. Tutti i bosniaci sono certi che la violenza sia dietro l’angolo.

Cosa può fare l’Europa? Prima di tutto può evitare che alcuni stati gettino benzina sul fuoco, come per esempio l’Ungheria di Viktor Orbán o la Slovenia di Janez Janša. I due di recente hanno incontrato e incoraggiato il leader serbo.

L’Unione non riesce ad agire unita nei Balcani, perché la questione dell’allargamento divide gli stati membri. L’adesione all’Unione è l’unica prospettiva che potrebbe stabilizzare la regione, ma è impossibile a breve termine. Al contempo un’azione dei 27 in Bosnia è assolutamente indispensabile, anche perché Russia, Cina e Turchia sono molto attive in questa zona problematica, e prosperano grazie all’instabilità diffusa. Ma è soprattutto per la popolazione bosniaca, trent’anni dopo l’assedio di Sarajevo, che bisogna impedire una nuova guerra sul suolo europeo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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