Considerando che la guerra è scoppiata da appena quarantott’ore, può sembrare avventato trarne delle lezioni, soprattutto mentre i combattimenti proseguono, la reazione israeliana è appena cominciata e la sorte degli ostaggi israeliani è ancora sconosciuta.

Il bilancio continua ad aggravarsi, con più di seicento morti tra gli israeliani e centinaia tra i palestinesi. Eppure questa guerra ha già cambiato l’equazione politica mediorientale. Cercando di valutarne l’impatto, è evidente che riguarda tre fronti: quello israeliano, quello palestinese e quello regionale.

In Israele lo shock è enorme. Alcuni commentatori ritengono che si tratti del più grave trauma dall’indipendenza dello stato nel 1948. In nessun momento della storia soldati di paesi arabi hanno messo piede nel territorio israeliano su scala paragonabile a quanto successo il 7 ottobre.

Il prezzo politico degli errori dell’apparato di sicurezza sarà enorme e lo pagheranno i vertici militari. Tuttavia, Benjamin Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra non potranno sfuggire al disastro provocato dalle loro scelte ideologiche: sono stati loro a dividere Israele e a far salire alle stelle la tensione nei territori palestinesi. La loro leadership ha fallito. La stagione delle responsabilità si aprirà quando cesseranno i combattimenti.

Sul fronte palestinese bisogna sottolineare che gli islamisti di Hamas, attraverso un attacco tanto pianificato quanto sanguinoso, hanno mandato un doppio messaggio: prima di tutto a milioni di palestinesi, rivendicando così la loro leadership a spese dell’Autorità nazionale palestinese e di Al Fatah; e poi anche ai paesi della regione, a cominciare dall’Arabia Saudita, che ha voltato le spalle ai palestinesi.

La questione della leadership si pone anche a causa del discredito dell’Autorità nazionale palestinese, inefficace e corrotta in un momento in cui i territori palestinesi sono in subbuglio in assenza di qualsiasi prospettiva politica.

Possiamo anche sorprenderci davanti al fatto che un’operazione terroristica contro i civili sia considerata un modo per affermare la propria leadership, ma davanti all’esasperazione dei palestinesi, schiacciati sotto il rullo compressore della colonizzazione, il radicalismo diventa un linguaggio politico. Il terrore inflitto all’avversario soddisfa un desiderio di vendetta e Hamas è perfettamente capace di sfruttare questa dinamica.

Infine, bisogna considerare l’impatto sulla regione, specie in relazione a due paesi chiave: l’Iran e l’Arabia Saudita. L’Iran controlla un altro nemico giurato di Israele, Hezbollah. Nelle ultime ore si sono verificati scambi di missili tra l’organizzazione sciita libanese e Israele, che ha chiesto agli abitanti del nord del paese di lasciare le proprie case.

Se Hezbollah entrerà pienamente in gioco, la decisione sarà stata presa a Teheran. Questo non è ancora successo ed è molto probabile che il fronte nord resti sotto controllo, ma è uno scenario che condiziona le dimensioni dello scontro e non va dunque sottovalutato.

L’Arabia Saudita è ormai un elemento cruciale. Il principe ereditario Mohammed bin Salman era pronto ad allearsi con Israele ignorando il destino dei palestinesi. Potrà ancora farlo considerando che la questione palestinese è tornata con prepotenza al centro della scena per restarci a lungo e che l’opinione pubblica araba è di nuovo mobilitata?

A questo punto è l’intera equazione regionale a dover essere rivista. L’onda d’urto di Gaza rischia di arrivare lontano.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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