Terrorista un giorno, dirigente corteggiato l’indomani. Abu Mohammed al Jolani, nuovo uomo forte della Siria, che ha abbandonato il suo nome di battaglia per riassumere la sua vera identità, quella di Ahmed al Sharaa, non è il primo a vivere una simile trasformazione.
Ma nel suo caso tutto è avvenuto molto rapidamente. Il 14 dicembre Antony Blinken, segretario di stato americano che al momento si trova in Medio Oriente, ha riconosciuto che era stato stabilito “un contatto diretto” tra gli Stati Uniti e i nuovi padroni della Siria, anche se sono ancora etichettati come “gruppo terrorista” da Washington ed esiste una taglia di dieci milioni di dollari per chi dovesse facilitare la cattura di Al Sharaa.
La Francia invierà il 17 dicembre una missione a Damasco, incaricata di stringere i primi contatti con le autorità. È un preludio alla riapertura di un’ambasciata che è rimasta chiusa per quasi un decennio. Nessuno vuole mancare all’appuntamento con un paese rimasto a lungo chiuso e a stretto contatto solo con gli alleati russi e iraniani.
La velocità di questa inversione di rotta è impressionante, se consideriamo il passato jihadista dei nuovi leader della Siria e la sfiducia che questo suscita nelle diplomazie occidentali.
Come si spiega questa rapidità? Prima di tutto la caduta del regime di Assad nel giro di pochi giorni ha dimostrato che il governo siriano, privato del sostegno dei suoi protettori, era ormai un guscio vuoto. Le manifestazioni di massa che si sono svolte il 13 dicembre, primo giorno della grande preghiera dopo la fine del regime, confermano che l’azione dei ribelli era sostenuta dal popolo.
Il secondo motivo è che nessuno – nemmeno gli israeliani che bombardano impietosamente la Siria da una settimana e hanno distrutto il 75 per cento dei suoi equipaggiamenti militari – ha interesse a vedere sprofondare nel caos questo grande paese. Al contrario, tutti vogliono contribuire alla sua stabilizzazione, non foss’altro che per permettere il ritorno dei rifugiati.
Ma soprattutto c’è da considerare il precedente iracheno, dimostrazione lampante che il caos favorisce gli estremisti. L’implosione dell’Iraq dopo l’invasione statunitense ha partorito il gruppo Stato Islamico, e lo stesso potenziale di distruzione esiste in Siria, dove l’organizzazione non è stata totalmente eliminata.
Le prime reazioni occidentali sono state prudenti, con un’esitazione a trattare con leader provenienti dal jihadismo. La parola chiave, a questo punto, è vigilanza, ma questo non impedisce di apprezzare i primi passi pragmatici intrapresi dai nuovi leader, che si sono impegnati a rispettare le minoranze religiose e i diritti delle donne, e hanno promesso di stabilizzare il paese affrontando le numerose sfide che lo aspettano.
Naturalmente il pensiero va ai taliban afgani nel 2021, quando si discuteva della possibilità che fossero davvero cambiati. Il seguito ci ha fornito una risposta. La Siria farà un altro percorso sotto la guida degli islamisti che hanno ufficialmente rotto con il jihadismo? È qui che la parola vigilanza assume significato. In ogni caso i siriani meritano il nostro sostegno e il nostro aiuto dopo anni di orrore durante i quali non abbiamo fatto molto per loro.
Un paese che si è precipitato sulla Siria senza tante esitazioni è la Turchia. Facendo affidamento su alcune fazioni siriane sotto il suo controllo, Ankara pensa di avere la possibilità di allontanare i curdi dalle frontiere turche e di allargare la sua influenza. Un motivo in più per non lasciare i siriani da soli nelle mani di Recep Tayyip Erdoğan.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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