Studiavo a Torino e vivevo in un magnifico condominio: era in una zona della città piuttosto anonima, aveva tre piani, i bagni in comune sul ballatoio e le stufe a legna. Quando si girava l’angolo, l’odore di fumo e legna strideva con il traffico dei viali, era una ferita nella memoria. La necessità di procurarsi la legna e condividere i bagni creava una selezione naturale degli abitanti. I vetri dei nostri bilocali erano spesso appannati perché c’erano ospiti, sul ballatoio si piantavano pomodori, si scambiavano torte, s’imparavano i dialetti. Poi dovetti partire per un anno: ero disperata, non avrei più vissuto il condominio! Avevo letto che Cesare Zavattini per un periodo aveva commissionato dei diari a uomini e donne incontrati per strada, così chiesi ai condomini di scrivere un diario di casa. Consegnai a tutti quaderno e penna, e me ne andai. Al ritorno raccolsi i diari: qualcuno l’aveva perso, qualcun altro ci aveva scarabocchiato sopra. Il signore siciliano al secondo piano, invece, aveva scritto la cronaca dettagliata della vita del condominio compilando dieci quaderni. Cominciai a leggere, ma dopo qualche pagina ne ebbi paura: davvero volevo sapere? Forse quello che mi ero immaginata era più potente, forse stavo violando il mistero dell’assenza. Misi via i diari. Sono ancora qui con me, chiusi in una scatola, e sembrano un piccolo condominio con i suoi colori e i suoi pudici segreti.

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Questo articolo è uscito sul numero 1559 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati