Katarína è tornata a Bratislava, “la capitale di un paese che nessuno conosceva”, per trascorrere il Natale con la famiglia, ma in un clima di solitudine. Non vede la sorella Dora da sette anni e ha lasciato il marito Eugen a Praga per via di un matrimonio in crisi. La donna si muove a Dúbrava come un’esiliata, che forse è l’unico modo di vivere un quartiere che non è più casa, tanto più che all’incontro con le amiche dell’università scopre che la lontananza non ha cambiato né ridotto gli affetti. Jana Karšaiová scrive in una lingua che non è la sua, e il suo italiano è essenziale, ma non per questo manca di profondità: spreme i significati di ogni parola, di ogni immagine, insegue la capacità del linguaggio di rievocare il passato, di ricreare legami. La lingua d’adozione è l’ancora di salvezza delle due protagoniste nel divorzio tra la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Lo mette in chiaro Viera, figlia di un ceco e di una slovacca, quando dal suo monolocale a Bologna dice: “Ho perso la lingua di mio padre quando se n’è andato, posso lasciarmi dietro anche quella di mia madre”. Si resta stranieri però nonostante la conoscenza quasi perfetta di una lingua: quella materna scava nel modo di guardare la realtà ed è solo riconciliandosi con la sua storia che Katarína riuscirà a sentirsi meno esule. Un libro intimo e morbido. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1481 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati