Nel cuore della notte un bambino “di lana cappellomunito, bardato di sciarpa, abbondante in giubbotto” bussa alla porta di Cimino, il vecchio del paese, che lo accoglie con un “E tu, cu cazzu sì?”. La comparsa del bambino che cerca il padre e parla una lingua buffa è l’occasione per presentare le caricature umane che abitano il paese: il fornaio, il prete, la Cietta, il Professore, Dir-Ettore. Lo ribattezzano Popoff. È un bambino come tanti che girovaga in un paesaggio qualsiasi, tra “lo spiazzo della piazza, tra le case, per le chiese”, mentre scopre il fascino della luce, la dolcezza dell’affetto e l’orrore della crudeltà umana. È una storia antica, quella in cui non è un villaggio a fare il bambino, ma è più il contrario. Alla fine, come dice Cimino, Popoff “non era manco un nome, adesso è nu paese”. Il nuovo libro di Graziano Gala recupera un modo di narrare che mescola la fiaba, la favola, il teatro. Il ritmo è quello delle vecchie filastrocche, la stessa cadenza ripetitiva che a leggere ad alta voce ingarbuglia la lingua. E anche la lingua è una commistione tra dialetto e lingua letteraria, un mettere per iscritto la tradizione orale, un’altalena di registro comico e tragico. Tutti questi elementi rendono Popoff un libro originale, eppure resta la sensazione che sia anche un esercizio di scrittura in cui si perde un po’ la storia dolce che racconta. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1579 di Internazionale, a pagina 83. Compra questo numero | Abbonati