Sono in sala al festival del cinema di Venezia, in attesa che un film cominci, tra gli spettatori. Dei ragazzi mi fermano e mi chiedono perché mi ostino a girare i film in pellicola, visto che ormai ci sono software in grado di imitare ogni tipo di pellicola. La mia non è una necessità estetica, ma di metodo: metto in conto l’imprevisto. Girare in pellicola vuol dire lavorare con un supporto vivo, che a volte regala dei piccoli miracoli di luce, a volte delle brutte sorprese non impressionando intere scene. Così al centro di ogni creazione non c’è il controllo assoluto del mezzo, ma la relazione con il mezzo. Penso a quanto sia oscuro e pericoloso invece il vizio del controllo, che ha ristretto le nostre anime e le nostre vite. Hai prenotato? Hai controllato le previsioni? Possiamo esercitare il nostro potere pure su un film, mandandolo avanti veloce o saltando dei pezzi. Va a finire che l’imprevedibile non lo incontriamo più e quando ci si palesa di fronte ci sbattiamo con violenza, facendoci male o facendo male. In questo momento sto facendo un piccolo esercizio di perdita del controllo: andare al cinema ci costringe ad affidarci allo sguardo di un altro. Il film è lento? Aspetta: ci sono luoghi in cui si arriva solo dopo essersi annoiati. E non c’è certezza: ci sarà la nebbia, il sole? Si vedrà il fiume? Come scrive Bertolt Brecht: tutti vedono la violenza del fiume in piena, nessuno vede la violenza degli argini che lo costringono.

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Questo articolo è uscito sul numero 1579 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati