Ho pochi riti con la musica ormai, ma cerco di preservare delle sacche di desiderio che mi permettano di scoprire dei dischi nel momento giusto. A volte questa dilazione viene ripagata e il lavoro in questione mi si rivela con autentica sorpresa: ascolto Spoken unsaid di Herself (uno dei nomi con cui il polistrumentista siciliano Gioele Valenti si presenta sulla scena musicale europea e statunitense in cui vive di svariate collaborazioni; l’altro è JuJu e merita un approfondimento) mentre sto costeggiando delle isole elettrificate lungo la strada per Fresno, e non potrebbe essere davvero un momento migliore, anche se è uscito da qualche mese.

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Perché si tratta di un disco “americano” di una volta, che si merita una sua casa parallela, fatto di chitarre quasi desertiche e ostinate, con una voce trattata volutamente come una polaroid bruciata. E nella foto bruciata ci vedi qualcuno che abbraccia Mark Linkous, forse Talenti stesso, mentre un’altra persona richiama la sua attenzione dall’altra parte di un locale, dove si esibisce una band oscura che un giorno non lo sarà più. Dopo un’apertura funebre e spiazzante, Spoken unsaid diventa il disco ideale per un viaggio, grazie a testi e versi un po’ fuzzy che non schiacciano la melodia e non s’impossessano della coscienza sottraendola alla ricezione della strada. Isole elettriche dove i pali dell’alta tensione svettano da piccoli appezzamenti di terra immersi nell’acqua, il modo ideale per perdersi nella San Francisco Bay e nella Sand di Herself, che fa una cosa sua, indifferente alle regole di questo tempo. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1577 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati