Quello che colpisce più di tutto è il silenzio: da quando John Lee, il capo dell’esecutivo di Hong Kong, ha avviato la consultazione pubblica per mettere a punto le leggi previste dall’articolo 23 della minicostituzione della città, nessuno dice niente, e i trenta giorni previsti per l’operazione scorrono senza una sola voce di dissenso.
Può sembrare una questione tecnica, per cui bisogna fare un passo indietro ed essere puntigliosi: l’articolo 23 prevede che Hong Kong “da sola varerà leggi che proibiscano qualsiasi atto di tradimento, secessione, sedizione, sovversione contro il governo centrale del popolo o il furto di segreti di stato, e che impediscano a organizzazioni o organi politici stranieri di condurre attività politiche nella regione, e a organizzazioni o organi politici della regione di stabilire legami con organizzazioni o organi politici stranieri”.
Pechino si era resa conto che quella che riteneva poco più di una piazza finanziaria poteva invece rappresentare più problemi del previsto dal punto di vista politico
L’articolo 23 è sempre stato considerato il cavallo di Troia all’interno della costituzione di Hong Kong, anche perché Pechino aveva voluto inserirlo in seguito alle proteste del 1989. Hong Kong, infatti, era scesa in piazza in massa per sostenere le proteste di piazza Tiananmen, che poi erano state represse dall’esercito di liberazione. Pechino si era resa conto allora che quella che riteneva poco più di una piazza finanziaria poteva invece rappresentare più problemi del previsto dal punto di vista politico. Così fece inserire l’articolo 23, che chiedeva a Hong Kong di dotarsi di nuove leggi per garantire la sicurezza, anche se ne aveva già varie di eredità coloniale. Questo per essere certi che, una volta ripreso il controllo della città nel 1997, dopo un secolo e mezzo di sovranità coloniale britannica, Pechino non avrebbe avuto di che preoccuparsi.
Il primo tentativo di mettere in pratica le indicazioni dell’articolo 23 risale al 2003. Allora, sembrò che l’intera città si opponesse. Il disegno di legge presentato era vago, conteneva molti passaggi considerati potenzialmente liberticidi e contrari alla natura aperta e cosmopolita di Hong Kong. Ovunque nascevano comitati per rispondere a quella proposta obiettando punto per punto o bocciandone l’esistenza stessa. Sostenevano che una legge così delicata poteva essere varata solo dopo l’attuazione di un altro articolo della minicostituzione, l’articolo 45, in base al quale Hong Kong dovrebbe eleggere a suffragio universale sia il consiglio legislativo (il parlamento locale) sia il capo dell’esecutivo. Se legge liberticida deve essere, ragionavano, che sia almeno scritta dai rappresentanti dei cittadini. Le manifestazioni si succedevano senza sosta, bloccate però dallo scoppio dell’epidemia di sars: così le proteste dalle strade passarono ai giornali, con editoriali, analisi, riflessioni di esperti che quasi sempre giudicavano la proposta di legge troppo generica ed estesa. Quando, con l’arrivo della primavera, l’epidemia diede tregua, le manifestazioni e i dibattiti pubblici ricominciarono. Le ong e i sindacati, le camere di commercio e i partiti a favore della democrazia, così come i gruppi religiosi e le unioni studentesche, tutti si espressero per dire no a una legge che avrebbe snaturato Hong Kong e che era l’opposto delle aspirazioni pluraliste e democratiche della città. Il 1 luglio del 2003, il sesto anniversario del ritorno di Hong Kong alla Cina, più di mezzo milione di persone scesero in strada contro l’articolo 23 e circondarono il parlamento. Il Partito liberale, una delle forze filogovernative, ritirò il suo sostegno a quella versione della legge, che fu così accantonata. Fino a oggi.
Dopo le proteste del 2019 il governo centrale ha adottato una legge sulla sicurezza nazionale scritta a Pechino (e non dal parlamento di Hong Kong), che ne dà una definizione molto ampia e simile a quella in vigore nella Cina continentale. Da allora ottenere il permesso di manifestare è diventato molto più difficile e più rischioso. A forza di processi e dichiarazioni governative, Hong Kong ha imparato che le espressioni di dissenso sono ormai considerate molto vicine alla sovversione o rischiano di violare la legge sulla sicurezza nazionale. Con l’attuazione dell’articolo 23 si pensa di criminalizzare anche “l’incitamento alla disaffezione” nei confronti di qualunque rappresentante del governo, instillando nei cittadini il timore di dire la cosa sbagliata, anche in contesti informali.
Nel documento proposto ci sono poi nuove definizioni del segreto di stato, che ricordano molto quelle della Repubblica popolare: anche informazioni sull’economia o sugli sviluppi sociali possono essere interpretate come segreti di stato. John Lee si è giustificato dicendo che Hong Kong è sotto l’attacco di potenze straniere e deve proteggersi: le manifestazioni del 2019, dice, sono state alimentate da forze esterne, non erano l’espressione dello scontento popolare.
Messa a tacere dalle leggi, Hong Kong non è mai stata così silenziosa. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1550 di Internazionale, a pagina 39. Compra questo numero | Abbonati